Alcune note sulle Fenicie di Euripide: Antigone è stanca

June 13, 2013 § Leave a comment

No, non sono in grado di mantenere un ritmo regolare nei miei post.

In tutto il tempo in cui non ho scritto (e lasciamo perdere il “diamine, è già metà giugno” che mi gira per la testa in questo momento – dov’è finito maggio?) sono successe alcune cose. Immediatamente relativo all’argomento di questo post è il fatto che a fine maggio sono stata a Siracusa a vedere Antigone ed Edipo Re. (Non immediatamente relativo all’argomento di questo post è il fatto che io sia riuscita, incredibilmente, ad andare a Siracusa mantenendo livelli di serenità emotiva accettabili.) Incidentalmente, ho anche dato l’esame che mi aveva richiesto di tradurre le Fenicie in primo luogo, ma questo non ha provocato grande coinvolgimento estetico. Siracusa, invece, nonostante tutto sì. E per “nonostante tutto”, cercando di non dilungarmi troppo e senza millantare un’esperienza o un occhio critico in campo teatrale che proprio non ho, intendo dire nonostante un’Antigone tradotta in modo discutibile – “meraviglioso è l’uomo”? Davvero? Ne approfitto per segnalare la ben migliore traduzione (non opera mia) che trovate qui –, con protagoniste femminili discutibili, e un Edipo che nonostante la grande fedeltà al testo non mi ha convinta fino in fondo. Mi resta, a livello generale, l’impressione che Sofocle messo in scena rischi di trasformarsi in una copia scialba di Euripide. Mi rendo conto che sia un giudizio critico avventato, ma d’altronde trasformare un testo in uno spettacolo (almeno uno di carattere tradizionale e rivolto al medio/grande pubblico come, al di là della buona qualità, restano quelli di Siracusa) richiede di prendere posizione su ogni sfumatura del testo stesso, operazione che, per Sofocle almeno, porta pericolosamente vicino all’appiattimento. Insomma, non ho trovato nell’Edipo Re rappresentato in scena nulla più di quanto avessi trovato leggendolo, e certamente qualcosa di meno. Nell’Antigone di quest’anno, invece, qualcosa di nuovo l’ho trovato eccome: il prologo delle Fenicie. Sì, perché la rappresentazione si apriva con un antefatto (necessario, a mio parere, considerato che i ragazzi seduti alle mie spalle sono riusciti a domandarsi chi fosse Tiresia – ma non aprirò il capitolo del comportamento sconcertante del pubblico, basti menzionare gli applausi rivolti a Edipo che entra in scena cieco e insanguinato), affidato niente meno che al fantasma di Giocasta, che ha recitato quasi per intero proprio il prologo delle Fenicie, aggiungendovi una parte della narrazione della morte di Eteocle e Polinice, ripresa tra l’altro testualmente dalla traduzione di Medda. Ora, mi si dirà che cucire il prologo delle Fenicie all’inizio dell’Antigone è un abominio. Sono propensa ad accettare l’obiezione, soprattutto perché il prologo dell’Antigone è di per sé una scena dalla forza drammatica e umana travolgente (peccato che né le due attrici né soprattutto il testo, ridotto e rielaborato, fossero all’altezza della parte). Eppure, nel momento in cui Giocasta raccontava il duello in cui i suoi due figli si erano uccisi, e in scena – con una scelta registica che non molti hanno apprezzato, ma che io ho trovato splendida – Eteocle e Polinice, interpretati da due bambini vestiti di bianco, simulavano un breve combattimento rituale, concluso da un abbraccio che non sarebbe potuto essere in più profondo contrasto con un testo che li paragona a cinghiali e leoni schiumanti, in quel momento (e solo in quello) mi sono salite le lacrime agli occhi. (E in quel momento ho deciso che voglio vedere rappresentate le Fenicie, se mai mi si presenterà l’occasione, ma anche questa è un’altra storia.)

Ma veniamo ad Antigone, quella di Euripide e non quella di Sofocle. Non che sia possibile leggere l’una prescindendo dall’altra, ed Euripide stesso (o i suoi più o meno numerosi interpolatori, dato che la parte di Antigone è per l’appunto quella sospettata di corruttele più estese, a invaderla quasi per intero) ne è ben consapevole. L’Antigone di Sofocle, mi si permetta la semplificazione, è la rappresentazione di una scelta. Questo non la rende meno viva, meno ricca pur nel suo essere fanciulla fredda e irremovibile, votata ai morti – ci sono uomini che si innamorano di Antigone, diceva Shelley, e forse aveva ragione, anche se io non sarò tra questi. Ma Antigone, nella tragedia che porta il suo nome, non è certo stanca. Lei ha preso una decisione, ha deciso di amare e non di odiare (ma di amare i morti, e questo Ismene lo fa notare crudamente e meravigliosamente, sia a tu per tu sia, soprattutto, in presenza di Creonte, ed è difficile prescindere da questa realtà – Antigone stessa nell’allontanare la sorella sembra confondersi e non comprendere più se la stia salvando da un destino di orrore o se stia solo consacrando se stessa e la propria unicità, ai limiti del disumano), e questo fa fino alla morte. (Che è poi una morte altrettanto problematica – chi si è consacrata ai propri princìpi, chi è nata per amare, si impicca con la cintura della veste?) L’Antigone delle Fenicie, o l’Antigone di Euripide, invece, è innanzitutto una ragazza, quasi una bambina. La vediamo per la prima volta, e la ascoltiamo, in quella che doveva essere una parte cantata di grande virtuosismo tecnico, nell’atto di guardare uno spettacolo. Antigone è curiosa, insiste nel chiedere al pedagogo i nomi di tutti i guerrieri che vede dall’alto delle mura. Quando vede il fratello, la sua reazione è istintiva e bellissima: si augura di poter superare la distanza che li separa, semplicemente, con una corsa, e di abbracciarlo. Si augura, insomma, e quasi crede possibile, di risolvere il conflitto con un gesto di affetto. Ha poco da invocare Artemide o la folgore di Zeus in nome della giustizia e dell’equilibrio: resta tremendamente ingenua. “Com’è strano a vedersi quello, con quelle armi, una specie di barbaro!” – “Come splende la corazza di Polinice, come i raggi mattutini del Sole!” Alla fine della sua teichoskopìa, da brava ragazza greca non ancora in età da marito (ma, a dire il vero, da brava donna ateniese di qualunque età), se ne torna nelle sue “stanze virginali”, ben attenta a non farsi scorgere da nessuno. Ed è proprio dalle stanze virginali che verrà a strapparla proprio colei che dovrebbe essere la più rigida custode della sua innocenza, la madre. Antigone reagisce con preoccupazione all’ordine di seguirla sul campo di battaglia, nel momento cruciale del dramma, mentre i due fratelli stanno per affrontarsi in duello. “Come, lasciare le stanze virginali?” “Mi vergogno della folla.” Una reazione del tutto naturale e del tutto inopportuna, data la situazione tragica.

Da lì in poi, la lacerazione. Non c’è più spazio per la naturalezza della vita di una ragazza, è il momento di affrontare la tragedia. Sul campo del duello l’unica ad agire davvero, per l’ultima volta, è Giocasta – ad Antigone sono affidate soltanto poche frasi di circostanza, una battuta stucchevole sul fatto che i fratelli abbiano tradito il suo matrimonio. Ma, nel momento in cui a propria volta rinuncia al suo ruolo, o meglio lo consacra immobilizzandolo nella morte, la madre trasferisce ad Antigone la custodia degli affetti familiari. Nel momento in cui ritorna in scena (dopo essersi silenziosamente occupata del recupero dei cadaveri sul campo, con un tocco di delicatezza impareggiabile da parte del messaggero che la descrive allontanarsi di nascosto prima che la battaglia infurii di nuovo), Antigone ha abbandonato, e lo dichiara esplicitamente, ogni riserva dovuta alla sua condizione. Neppure le voci della natura hanno la possibilità di rispondere a suo canto con un lamento uguale. (Ammetto che quest’ultima osservazione è precaria, perché si riferisce a un punto del testo che soffre di una corruttela particolarmente complessa.) Solo che vi sono due modi di uscire dalla propria condizione di – tutto sommato – innocenza, e una è proprio quella della sua omonima sofoclea. E, in effetti, Antigone vuole seppellire Polinice, lo dichiara sfacciatamente in sfida a Creonte, si aggrappa fisicamente al cadavere in scena. Non posso evitare, a questo punto, di citare la battuta con cui la figlia di Edipo rifiuta il matrimonio con Emone, in tutta la sua meravigliosa semplicità: “Non è che con questi lamenti attirerai la sciagura sul tuo matrimonio?”, chiede Creonte, sicuro come sempre della sua posizione – “Ah, certo, perché da viva potrò mai andar sposa a tuo figlio!”. Ma neppure la sfera degli affetti familiari, qualsiasi fossero i sentimenti di Giocasta, è semplice e univoca: seppellire Polinice significa restare a Tebe, significa affrontare un altro capitolo di quella tragedia umana destinata a trascinarsi in eterno che è la saga dei Labdacidi, e significa anche abbandonare il padre nel suo momento di massima debolezza (che, paradossalmente, non è quello dell’accecamento e della scoperta della propria contaminazione, Edipo Re è grande fino alla fine, ma questa è di nuovo un’altra storia nonché l’argomento di un seminario). E Antigone, in fondo, è stanca, o forse stanca sono io che scrivo e che non resisto alla tentazione di attribuirle ciò che è mio. Forse Antigone sceglie l’esilio insieme al padre per affrontare in altro modo, altrettanto duro e doloroso, la sua sorte (“mi renderà grande la tua sciagura”, dice a Edipo, ma questa parte sì che è certamente interpolata, o almeno soggetta a una corruttela gravissima, a giudicare dalla conclusione totalmente illogica). O forse, semplicemente, accoglie del suo destino quella parte che potrà finalmente allontanarla da Tebe, da tutto quel sangue ormai privo di senso (quant’è lontano Sofocle!), insieme con un padre che, almeno, ha compiuto la sua parte sulla Terra (anche se ha bisogno che ciò gli venga ricordato, perché mantiene lo sguardo – la crudeltà è assolutamente voluta – rivolto alle imprese passate) e si avvia, forse, verso Colono. Ma anche qui, a ricordarci la precarietà del testo e di tutto quello che si è detto su di esso, intervengono le cruces del filologo: la menzione di Colono è spuria. La tragedia si chiude sull’immagine di un esilio senza meta. Forse, l’Antigone che è rimasta a Tebe soffre di meno – o, almeno, ha un senso cui aggrapparsi, finché il senso non prende forma, nella cintura della sua veste.

Alcune note sulle Fenicie di Euripide: Giocasta, Creonte, Meneceo

April 27, 2013 § Leave a comment

Non ditemelo, sono in ritardo. Li chiameremo “tempi tecnici da preparazione di seminario”.

Innanzitutto, qualcuno mi ha chiesto conto (nella consueta maniera puntualissima per cui ringrazio) di quanto ho scritto nell’ultimo post. Ci tengo a chiarire almeno una cosa, al di là del fatto che, naturalmente, si tratta di mie opinioni personali senza pretese di autorità (caratteristica che peggiorerà in questo post e nel successivo): non ho un’ipotesi filologica sulla costituzione del testo delle Fenicie. È tutto ben più complicato di quanto si addica alle mie possibilità – mi limito a osservare che un problema di “autenticità” c’è, ed è evidente, e che nonostante ciò non ne terrò conto (perché, personalmente, penso che il testo abbia valore per come ci è pervenuto, al di là delle analisi filologiche, etc.). Questa precisazione è fondamentale per quanto segue, dato che la caratterizzazione dei personaggi (Antigone in particolare) cambierebbe radicalmente se non si prendessero in considerazione sezioni come la teichoskopìa o i riferimenti al seppellimento di Polinice nel finale. Per chi invece volesse documentarsi meglio sull’aspetto testuale della questione, a livello divulgativo raccomando, per una volta, l’edizione BUR a cura di Enrico Medda, corredata di un’ottima introduzione e un’appendice note al testo che rimediano (in modo peraltro ben più leggibile) all’assenza di apparato critico.

Ma torniamo ai personaggi. Se non fosse chiaro, non ho intenzione di parlare né di Eteocle né di Polinice, se non per opposizione. I due fratelli non sono affatto i protagonisti del dramma, e l’unica cosa che sanno fare davvero bene è discutere. Per un episodio intero. Senza concludere nulla, senza ascoltarsi, senza ascoltare la madre. Ciascuno dei due è mosso da diverse motivazioni e diverse ambizioni, entrambi non vedono oltre il proprio regal naso. È questo ciò che li condanna ad avere torto, inappellabilmente, a differenza di quanto avveniva nei Sette a Tebe eschilei: per quanto Polinice sia più dalla parte del giusto rispetto al fratello, non è capace di preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni esattamente come lui. Agendo per un principio non certo condannabile (effettivamente, Eteocle l’ha cacciato dalla propria città violando i patti, condannandolo alla peggiore sventura per un uomo greco), Polinice porterebbe o Tebe o l’esercito argivo alla sconfitta e alla distruzione. Non ci sarebbe modo di evitare questa considerazione neppure se Giocasta non la rendesse esplicita a metà del (lunghissimo) primo episodio. Da parte sua, Eteocle non difende Tebe, ma il proprio diritto alla tirannide: “Se si deve agire ingiustamente, meglio farlo per il potere.”

Il carattere dei due fratelli, d’altronde, si sarebbe potuto intuire perfettamente già dal loro atteggiamento nei confronti del padre. Nelle Fenicie, sia Edipo sia Giocasta sono vivi, e Creonte non ha ancora preso il potere a Tebe; cosa più importante, Edipo non ha maledetto i figli nel momento in cui ha scoperto la propria colpa. È tipico di Euripide presentare versioni inaspettate del mito, ma questa alterazione è particolarmente significativa: Edipo maledice i figli in risposta al loro primo atto di crudeltà ed egoismo, ovvero quando essi, divenuti adulti, decidono di rinchiudere il padre nel palazzo, nascondendone l’esistenza al mondo nella (risibile) speranza che i cittadini dimentichino la macchia che è stata la loro stessa nascita. A narrare il tutto è una Giocasta molto servizievole, nel prologo: un lungo discorso denso d’informazioni sugli antefatti della torbida vicenda, che andò inevitabilmente soggetto all’accusa di essere inopportuno. Il fatto è che Giocasta racconta la storia della propria famiglia deforme (simboleggiata da un Edipo sfregiato, di cui la madre si prende cura anche dopo la condanna dei figli) con un’attenzione al particolare straordinaria sì, ma sempre temperata dalla volontà di riportare tutta la storia a qualcosa che, in fondo, può essere normale. O meglio, Giocasta racconta la storia della propria famiglia distrutta come chi ne fa ancora parte (il contrario di ciò che accade nell’Edipo Re sofocleo) e, soprattutto, è ancora legato da profondi legami affettivi a tutti i protagonisti della vicenda. Quasi commovente (o morboso, se si preferisce) è l’affetto che la madre-moglie prova per Edipo, quasi che il suo doppio status di marito e figlio non abbia fatto altro che accrescere la forza della loro unione. Così anche per i figli e le figlie del letto contaminato – soprattutto Antigone e Ismene, nomi scelti a turno, uno dalla madre e uno dal padre, nell’ottica di una “comunanza di figli” tra marito e moglie che mantiene unito il nucleo familiare. È attraverso questo nucleo affettivo che Giocasta è in grado di mettere ordine, in qualche modo, nella confusione di valori creata dagli dei e dagli uomini, riportandosi a quelli, tra i valori, che dovrebbero essere in grado di renderle almeno sopportabile l’esistenza. Ed è anche l’unico personaggio a porre i due fratelli di fronte alle proprie responsabilità, rispondendo a ciascuno dei discorsi pronunciati da loro in difesa della propria posizione con una rhesis che è un appello alla responsabilità, di fronte alla città di Tebe, l’elemento sociale intorno al quale i legami familiari a propria volta si tessono, ma anche di fronte al cosmo intero (la metafora scelta non è casuale: il Sole e la Notte, pur dovendo alternare il proprio regno, non sono insofferenti nel sottomettersi al patto per il bene dell’umanità).

Tuttavia, non è a Giocasta che spetta di salvare Tebe. Anzi, tecnicamente a Giocasta non spetta di salvare proprio nulla: la sua fine sarà la rinuncia, l’abdicazione al proprio ruolo di “faro degli affetti” attraverso il suicidio – ma il medesimo ruolo sarà immediatamente ricoperto da Antigone, cui la madre stessa “passa il testimone” chiamandola, simbolicamente, fuori dalle stanze verginali alla vita adulta. C’è però nelle Fenicie un secondo nucleo familiare oltre a quello dei Labdacidi, ed è quello cui Giocasta stessa appartiene per sangue, rappresentato dal fratello di lei, Creonte, e dai suoi figli. È a loro, gli ultimi discendenti per linea pura degli Sparti, i guerrieri nati dai denti del drago sacro ad Ares seminati da Cadmo, che spetta di salvare la città. La contesa dev’essere espiata, e il compito, per responso di Tiresia, ricade su Meneceo, figlio minore di Creonte. (A Emone, il maggiore, spetta invece di sposare Antigone, ma quest’esigenza tradizionale è integrata nel testo, per una volta, in modo davvero maldestro.) L’unico ostacolo alla salvezza della città, questa volta, sono proprio gli affetti familiari, e qui (a mio modesto e forse non condivisibile parere) si arriva a uno dei momenti migliori di Euripide in quanto autore tragico che non attenua in alcun modo i conflitti di valore. Perché la reazione di Creonte al responso di Tiresia, ovvero tentare di far fuggire il figlio di nascosto pur di salvare lui, condannando Tebe, è perfettamente comprensibile (anche se il personaggio di Creonte, per parte sua, è altrettanto cieco e odioso di Eteocle e Polinice, e lo rivelerà nel finale). Sarà Meneceo ad assumersi la responsabilità di fare ciò che è giusto, sacrificandosi di propria mano sulle mura, nel punto più adatto per placare Ares. L’esigenza della collettività trionfa su quella personale, come nell’Eretteo, tragedia euripidea perduta della quale ci è stata tramandata una stucchevole rhesis (contenuta nell’altrettanto stucchevole orazione Contro Leocrate di Licurgo) in cui la moglie di Eretteo, Prassitea, approva il sacrificio della figlia per salvare la città. Ma anche nell’Eretteo il finale era tutt’altro che conciliatorio: pur con Atene salva, la madre ignorava che le altre figlie avevano giurato di uccidersi a propria volta se la sorella fosse stata sacrificata. Segue massacro. Nelle Fenicie, toccherà ad Antigone scegliere tra il ruolo veramente “tragico” della sua omonima sofoclea e un’altra strada, più umana.

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