Considerazione [sono una persona modesta]

February 16, 2012 § Leave a comment

Frase del giorno: “Salve. Qui tutto ti è facile e amico.” Bella frase da mettere all’ingresso di una biblioteca. Anche se forse in arabo non ha un grande effetto comunicativo.

Mettiamola così: ho un problema etico.

Almeno da Kant in poi (ma qualcuno lo avrà detto già prima, su, non è complicato), qualcuno ha pensato di stabilire come principio fondamentale dell’etica quello della libertà. Un’azione è morale, e di conseguenza passibile di un giudizio morale, quando dipende dalla volontà dell’individuo e non da costrizioni esterne. Ora, in fondo, già su questo avrei delle leggere riserve. La volontà di un individuo dovrebbe essere un principio libero. Si può compiere un’azione non avendo altra scelta e dando il proprio assenso, oppure si può compiere un’azione non avendo altra scelta ma perseverando nella propria volontà di non compierla. Il problema finisce dunque per sdoppiarsi: chi compie un’azione moralmente condannabile non avendo altra scelta è colpevole? O lo è soltanto se dà il suo assenso? O lo è in misura minore se non avrebbe voluto farlo? Si può essere colpevoli in misura minore? (ok, questo sì, o la mia morale rischia di diventare una mostruosità più di quanto già non sia) E soprattutto, che senso ha ragionare in astratto su qualcosa di cui solo l’individuo può avere coscienza per se stesso? Che poi, la mia etica non concede la possibilità di condannare gli altri per le loro azioni senza conoscerne pienamente i motivi, il che è impossibile, perché la visione del mondo di ogni altro individuo ci è preclusa. (Ciò non toglie che si possa giudicare ed esprimere un giudizio sulla condotta altrui – sono una moralista –, a patto che ci si ricordi che il proprio giudizio è inevitabilmente parziale e fallace, con tutte le conseguenze del caso – e qui ci sarebbe da discutere del fatto che diritto e morale non coincidono, ma questa parentesi si sta allargando troppo.)

Insomma, già la questione della volontà è un problema rilevante su cui sto tentando di ragionare. Anche perché, chi lo dice che sia veramente libera? Siamo fatti di processi biologici di cui abbiamo una coscienza estremamente limitata. All’inizio di settembre ascoltavo un neurologo spiegare che nel momento in cui ci rendiamo conto di aver preso una decisione i nostri processi cerebrali si sono, a quanto risulta dagli esperimenti, già avviati. Anche il rapporto tra speculazione (oh dear, not Hegel again) filosofica e progresso scientifico è una questione enorme, maledizione. Ma sto decisamente divagando.

Il mio problema più recente non riguarda il principio etico della volontà, ma un’altra proposizione apparentemente scontata che sta altrettanto, se non di più, a fondamento della morale. Vale a dire che ogni nostra azione ha conseguenze. Mi si dirà che non è vero, che spesso non si riesce a ottenere nulla (è uno dei motivi per cui l’etica, almeno in un’ottica kantiana, valuta le intenzioni e non i risultati). Non intendo dire che ogni azione ha le conseguenze desiderate. Intendo dire che ogni nostro atto, anche il più piccolo, il più futile, ha degli effetti sul mondo esterno. Lo modifica. Altrimenti non avrebbe alcun senso parlare di questioni o di giudizi o di alcunché di morale. E a questo punto si apre un abisso.

Il punto è: se ogni mia azione ha delle conseguenze, di quali di queste conseguenze io mi devo ritenere responsabile? (Nota fondamentale: quando dico “io” intendo esattamente io. Me. Non un individuo ipotetico, perché quello non lo potrei giudicare correttamente, mentre posso e devo giudicare me stessa.) Tecnicamente, anche ogni volta che respiro modifico l’ambiente esterno in modo rilevante. È vero che questa azione non è subordinata alla mia volontà, quindi forse non me ne devo preoccupare. E poi, sarebbe difficile definire se l’effetto delle mie emissioni di anidride carbonica, agenti patogeni e affini sia positivo o negativo dal punto di vista etico. Ma mettiamo il caso che io faccia qualcosa nel senso più comune, che io compia una scelta etica, prendendomene le responsabilità. Questa mia azione, qualunque sia, potenzialmente modificherà (seppure, per carità, in minima parte) l’ambiente con cui si relazionano svariate persone. Più importante è la mia scelta più vaste o più gravi saranno le conseguenze sull’ambiente esterno. Ora, io dico: qual è il discrimine tra le conseguenze di cui sono responsabile e quelle che non mi riguardano? Mi si dirà: sei responsabile di quello che riesci a controllare. Buona risposta, e poi, si sa, la parola mi piace. Cosa significa, però, controllare? Essere in grado di contribuire alle cause di un evento? In tal caso, se la mia azione precedente ha contribuito a causarlo, allora io ne sono automaticamente responsabile. Anche se fossi la proverbiale farfalla che battendo le ali in Indonesia ha causato, tramite una catena di fenomeni inspiegabile di cui non ha coscienza, un tornado in Kansas. Ah, i dilemmi etici dei lepidotteri.

Ecco, vedete? In realtà, tutto questo è ridicolo. È ridicolo perché, me ne rendo conto scrivendo (be’, diciamo che prima lo sospettavo), forse ho impostato il problema al contrario. In realtà, io sono responsabile non di quello che posso provocare più o meno direttamente, ma di quello che avrei potuto impedire. Le concause che determinano un evento sono innumerevoli, come direbbe il solito Tolstoj. Solo che, e non ricordo se di questo il vecchio russo avesse tenuto conto, ci sono casi in cui l’eliminazione di una sola causa è sufficiente a impedire che un evento si verifichi. Se questa causa dipende da me, allora io sono responsabile del verificarsi o meno di quell’evento. Tutto qui. Tutto semplice.

Oppure no. No perché questa non è una risposta definitiva, non è condivisibile (o almeno, sospetto che qualcuno non la condividerà) e non è detto che sia valida. (Notate la climax?) No, soprattutto, perché anche così le responsabilità di cui tener conto sono una massa spaventosa. Forse io sono troppo fragile. Forse sto sbagliando i conti. Ma mi sembrano sempre e comunque più di quanto mi aspettassi. Tutto questo non era previsto dal contratto. Dov’è il mio diritto di recesso? Dove si restituisce il biglietto? Eppure non posso e non devo non tener conto di questo principio di base. Ogni mia azione ha conseguenze sugli altri. Che si traduce in, semplicemente, sta’ attenta a quel che fai. Piccoli imperativi non categorici.

PS Qualcuno si starà forse chiedendo chi io sia per pensare di poter dare qualche risposta a questioni così grandi (o magari per giudicarle più importanti di altre). Nessuno. Sono una persona che fa fatica ad accettare molte cose.Per quanto io provi a negarlo, sono una creatura.”

PPS Il titolo è un po’ autoreferenziale, forse.

L’egoista consapevole

February 2, 2012 § Leave a comment

Frase del giorno (di ieri, a dire il vero): “perché, vedete, lei mi piace perché è così semplice, è l’alunna ideale, ragiona in modo lineare, segue le mie indicazioni e traduce perfettamente, senza problemi.” Come no. Vuole una sardina?1.

Premessa necessaria: questo post è evidentemente una risposta a smellslikewhite, la cui identità non è un mistero per nessuno ma non svelerò per le imperscrutabili regole del blogging, e perché così è più divertente. Di certo non è una risposta completa (quando mai ho dato delle risposte complete?); vi converrà probabilmente leggere il suo post prima per capire qualcosa, o quantomeno io lo consiglio, come consiglio spesso (?) di leggere le cose con cui non sono affatto d’accordo.

Ma iniziamo come si deve.

Per “egoismo” intendo (in breve) diversamente dal senso comune, il fatto che ogni nostra azione dipenda solo e soltanto da noi stessi e ritorni solo e soltanto su di noi, all’interno del guscio chiuso del nostro “ego”.

Ecco. Ci sono almeno due definizioni possibili, o due livelli, di egoismo. Uno prevede che l’individuo agisca soltanto per sé, nel proprio interesse. Si può osservare che, in effetti, noi agiamo bene perché associamo alla buona azione un benessere psicologico, una soddisfazione, anche solo l’assenza di quello stimolo negativo potentissimo che è il senso di colpa. Si noti che quando lo sforzo per ottenere questo benessere diventa superiore al beneficio (che è enorme), allora cessiamo lo sforzo stesso. Per questo siamo così sensibili a un limite che potrei chiamare “orizzonte morale”: nei confronti di chi cade all’interno di esso ci sentiamo responsabili, mentre chi ne è escluso viene trascurato nei nostri calcoli. Può essere una questione di prossimità geografica o di contatti umani o di rispettabilità o di quel che volete, il punto è che nel momento in cui agiamo in modo tale da ottenere “il maggior bene” per chi ci circonda siamo continuamente costretti a limitare questo gruppo di persone, o il concetto stesso di bene si frammenterebbe troppo perché noi possiamo perseguirlo. Un’azione morale è volontaria per definizione; ma la volontarietà toglie gratuità, non necessariamente valore all’azione stessa. A questo riguardo, potrei limitarmi come mio solito a citare Hume e il suo interlocutore immaginario:

Che ne dite, aggiungo, dell’affetto naturale? Anch’esso è una specie di egoismo?
Sì, tutto è egoismo. I tuoi bambini li ami solo perché sono tuoi; i tuoi amici per la stessa ragione, e del tuo paese ti importa solo in quanto ha un rapporto con te stesso: se togliessimo l’idea dell’io, nulla ti toccherebbe più […]
Sono anche pronto, rispondo, ad accettare la vostra interpretazione delle azioni umane, purché voi ammettiate i fatti. Dovrete cioè ammettere che quella specie di egoismo che si manifesta sotto forma di benevolenza verso gli altri ha una grande influenza sulle azioni umane; un’influenza non di rado anche maggiore di quella specie di egoismo che mantiene il suo aspetto o la sua forma originari. […] Se anche voi foste uno di questi uomini, sareste sicuro della buona opinione e della benevolenza di tutti; ossia, per non urtare le vostre orecchie con simili espressioni, l’egoismo di tutti, e il mio tra gli altri, ci spingerebbero a renderci a voi utili e a parlare bene di voi.

[“Dignità o viltà della natura umana”, in Sul suicidio e altri saggi morali, Laterza]

Hume, peraltro, è di un ottimismo indegno, e il mio studio recente degli utilitaristi inglesi e di quel brav’uomo di James Mill potrebbe avermi leggermente influenzata nelle riflessioni appena fatte. Ma non è questo il genere di egoismo in questione, anche se confondersi è molto facile. Qui si tratta piuttosto di quello che per me è forse il primo problema dell’etica: la possibilità di adottare una prospettiva che non sia la propria.

Questo può significare la semplice elezione di un principio morale a guida esterna e “assoluta” delle proprie azioni, e si può con qualche ragione affermare che un simile procedimento porti all’abdicazione dell’individuo alla propria possibilità di scelta. Il che significa però anche la negazione del principio stesso dell’etica, ovvero (poco kantianamente, mi raccomando) il principio che un’azione ha valore morale quando è libera, ovvero quando dipende dalla volontà dell’individuo che la compie. Aggiungerei: dipende almeno in parte dalla volontà, perché una responsabilità condizionata è sempre responsabilità. Il che significa peraltro che le azioni non valutabili moralmente sono pochissime, forse nessuna, perché anche nella situazione più costrittiva è (quasi) sempre possibile scegliere di non fare ciò che viene imposto.

Ma il paradosso dell’etica è un altro. Per prendere una decisione le cui conseguenze riguardino gli altri, nel momento in cui si vuole tener conto di queste conseguenze (non farlo non è un “peccato” morale, anche perché una cosa del genere non esiste: piena libertà di essere coerentemente egoisti, fino in fondo) è necessario tentare di uscire dalla propria prospettiva individuale. Perché non è vero, e non sono io a dirlo, che “le nostre azioni ritornino solo e soltanto su di noi”. Una nostra azione ha sempre un’influenza sul mondo esterno. Una morale che tenga conto degli altri non significa una morale al servizio dell’altro come se questo fosse un principio superiore (o “inferiore”!) qualsiasi. Non serve neanche dimostrare che gli altri esistano, così come non è necessario dimostrare che esista la realtà: è solo un promemoria critico, qualcosa che giustifichi il dato empirico che (apparentemente) non tutto dipende da noi. Non è neanche detto che ciò sia vero. Il punto è che il mio egoista è consapevole perché sa e non può dimenticare di essere confinato entro se stesso, che ogni sua azione dipende dalla sua volontà e quindi da nient’altro che da lui, e di non poter chiamare un principio esterno a giustificazione di un bel nulla. Eppure vuole (scegliere una morale, anche una diversa per ogni decisione se si preferisce, è un atto di volontà, dunque libero!) tentare di tener conto, nel momento in cui agisce, delle conseguenze che la propria azione avrà all’esterno di lui. Decidere che la propria libertà non sia arbitrarietà.

Questo è il punto in cui si arriva all’impasse. È inevitabile. Uscire da sé è impossibile, non si riesce ad abbandonare la prospettiva individuale, perché tutti i nostri punti di riferimento sono stati filtrati da quella prospettiva stessa. Il bene altrui (ammesso e non concesso che io sia in grado di definire “bene”) non è necessariamente il nostro, non solo in termini concreti (ciò che va bene per me non va bene per te), ma anche in teoria. Ciò che io vedo come bene o utilità universale è in realtà il mio concetto di bene e il mio concetto di utilità. Come in qualunque altra situazione, sono condannato all’egoismo conoscitivo. Eppure non sono tenuto a rinunciare qui. Il migliore esercizio sta proprio nell’esaminare se stessi, nel ricercare nei limiti del possibile quali siano i filtri che frapponiamo tra noi e l’ipotetica realtà, e una volta individuati tentare di correggere la deviazione che ne derivi. Non riusciremo mai, neppure con una ragionevole approssimazione, e la posizione non è neppure gran che difendibile a livello teorico.

Sembrerebbe che ciò non dimostri niente. A mio parere, mostra almeno una cosa: che non necessariamente chi rifiuta di fondare la propria morale unicamente su di sé sta cercando una maschera o una scusa per non esaminare continuamente le proprie decisioni. Al contrario, cerca un modo per ricordarsi di farlo di continuo. Anche se questo, alla fine, non è che il trionfo dell’egoismo, dell’autoreferenzialità, della superbia addirittura.

L’egoista consapevole esiste, e sa benissimo che la sua morale non funziona, né teoricamente né in pratica, perché ogni volta che prova a vedere la realtà e la verità degli altri gli viene il forte sospetto che qualunque corso di azione sia intrinsecamente sbagliato. Ma secondo quale termine di riferimento? Spesso pensa che la cosa migliore sia non agire, smettere di parlare e di respirare pur di non influenzare il mondo esterno, e allo stesso tempo sente che questa è la cosa più sbagliata che potrebbe fare, perché sarebbe l’insulto peggiore che potrebbe fare a se stesso. L’egoista consapevole sa di non avere una morale, tenta di costruirsela e ricostruirsela di continuo, e si accorge altrettanto spesso di quante delle sue azioni prescindano dall’analisi morale propriamente detta. Una morale che non sia valida almeno per qualcosa che senso ha? L’egoista consapevole è molto, molto frustrato.


1. Battuta poco comprensibile a chi non conosca il contesto. Diciamo che il mio professore di greco ha una certa somiglianza con un tricheco.

This is how it works

August 31, 2011 § Leave a comment

Ebbene sì, anche quest’anno ce l’ho fatta. Non ne posso più delle vacanze. Voglio tornare a scuola. Non vedo l’ora di tornare a scuola, a dire il vero. Succede tutti gli anni, di solito intorno alla seconda settimana di agosto (sono in terribile ritardo, questa volta), nel momento in cui la mole di compiti non fatti inizia a scemare sensibilmente, inizia il ripasso prescolastico (il minimo indispensabile, per carità) e, soprattutto, arriva la noia. Sono una persona che si annoia facilmente, in vacanza. Posso rilassarmi, posso uscire con qualcuno, posso divertirmi, ma resteranno sempre enormi tempi morti che non so proprio come affrontare. Ed ecco che mi annoio. In particolare, c’è un momento in cui la noia, e l’irritazione che ne consegue, superano un livello critico: a quel punto inizio a smaniare per il ritorno a scuola. Quest’anno pensavo di non farcela, pensavo che sarei arrivata al dodici di settembre con ancora quella voglia di restarmene a casa, sola e in pace che ho provato per più di metà dello scorso anno scolastico. Invece sono ufficialmente stufa. (Che poi, che c’entra il riscaldamento?)

Sono stufa di stare in casa senza nulla da fare o quasi. Sono stufa del fatto che il compito di riempire le mie mattinate tocchi alle ripetizioni di latino. Dover sentire mio fratello che ripassa nell’altra stanza mi irrita. Cenare in giardino ogni santa sera mi sta facendo impazzire, tra il buio (odio mangiare al buio) e le zanzare che hanno ormai raggiunto dimensioni e livelli di aggressività apocalittici. Ma la verità è che a distruggere definitivamente la mia pazienza per la fine delle vacanze è arrivato il ripasso di filosofia.

In estate, come devo aver già detto più volte, permetto al mio cervello di andare in stallo. Dal punto di vista meno strettamente intellettuale, si tratta di tirarsi al bordo dello stagno e di osservare ciò che succede in mezzo all’acqua. A un certo punto del mese di agosto, di solito, si combinano due fattori: io mi stanco di stare a guardare, e succede qualcosa che mi porta a buttarmi di nuovo. Quest’anno le cose sono andate in modo leggermente diverso, ma questo non interessa a nessuno (tranne alle persone cui interessa, evidentemente). Non ho un preciso motivo per riprendere ad agire, o meglio, l’ho ma non ho modo di farlo per motivi contingenti, quindi mi sto innervosendo. In ogni caso, dal punto di vista invece strettamente intellettuale quando sono in vacanza faccio ben poco. Distendo il cervello. Non assimilo quasi nulla e imparo poco. Faccio i compiti, e nient’altro (sì, ho fatto due versioni di greco in tutta l’estate e non me ne vergogno neanche troppo). Infatti le mie liste di letture estive fanno sempre una pessima fine. Solo che da metà agosto in poi arrivano le settimane di ripasso, per quanto blando, degli argomenti che non ho capito durante l’anno. E quest’anno, per mia fortuna, è toccato anche a filosofia.

Il guaio è che il programma di filosofia dell’anno passato per me tende ormai inesorabilmente a Kant. Kant che avevo colpevolmente dimenticato per due o tre mesi, tralasciando i miei ambiziosi progetti di attacco alla Critica della Ragion Pura, e che stava perdendo la sua influenza sul mio modo di pensare. Provvidenziali sono arrivate le dispense consegnate dal mio professore, che non avevo mai letto integralmente e che ho colto l’occasione per usare come alternativa al libro di testo, la cui esposizione è pietosamente schematica. Eccomi dunque nel bel mezzo del ripasso di Kant, a rendermi conto di alcune cose, ovvero che: punto primo, la sua filosofia è troppo vicina alle mie riflessioni personali (fatte le debite proporzioni!) perché io vi resti indifferente; punto secondo, una volta compreso Kant non riuscirò mai più a liberarmi del suo approccio alla realtà nel giudicare il pensiero di altri filosofi (sì, io giudico il pensiero dei filosofi, eccome); punto terzo, non lo capirò mai quanto vorrei, alla fine di un ragionamento rigorosissimo troverò sempre una conclusione apparentemente illogica e del tutto spiazzante; punto quarto, ogni volta che leggo anche solo un riassunto scolastico della sua filosofia mi sento illuminata. (Punto quinto, incidentalmente, se l’uso di che seguito dai due punti nella frase precedente vi infastidisce, ammetto che avete quasi certamente ragione e che non posso neppure scusarlo come discorso indiretto libero alla latina.) Mi sento completamente persa in un insopportabile filosofo settecentesco, insomma. E non vedo l’ora di poter tornare a scuola, dove avrò diritto di sentirmi persa di fronte a una molteplicità di argomenti nuovi.

Ho effettivamente la sensazione di non star tenendo conto di qualcosa di spiacevole. Qualcosa come ore e ore di studio giornaliero e montagne di stress da prestazione. Ma per ora mi permetto di non pensarci.

La notizia positiva è che sabato parto di nuovo (e per la cronaca non credo che scriverò altro fino al mio ritorno), per una settimana di stage universitario che si concluderà direttamente il giorno prima dell’inizio della scuola. Insomma, se, come dice il mio professore di greco, “una volta entrata in una prospettiva culturale non ho speranza di uscirne”, allora almeno avrò pane per i miei denti e un modo per sconfiggere la frustrazione che mi sta assalendo negli ultimi giorni. Ah, e poi, in caso qualcuno si stesse preoccupando per la mia salute mentale nel frattempo, vi assicuro che mi sto dedicando anche a occupazioni più leggere del vecchio di Königsberg.

PS Non è che io voglia sempre concludere con un brano musicale, è solo che per completezza mi sembrava necessario indicare che il titolo è preso da qui. E magari si capisce anche perché.

Elogio dell’Imperativo

May 5, 2011 § Leave a comment

Innanzitutto, so di stare un po’ trascurando il blog, ultimamente. Ho qualche ragione a mia discolpa. Cerco di riservarmi ogni giorno un momento per scrivere, leggere o in generale dedicarmi ad attività riposanti e possibilmente edificanti (?), ma per necessità ultimamente questo momento slitta verso le ore serali, e di norma a quel punto sono talmente stanca che finisco per fissare lo schermo e al massimo fare un solitario (shame on me!) mentre ascolto qualcosa. Secondo motivo di affaticamento mentale, un certo Immanuel Kant occupa ormai la maggior parte dei miei pensieri, almeno a livello speculativo. Sto tentando da giorni di buttare giù qualche riflessione su un tema che mi interessa in modo probabilmente troppo profondo per scriverne, vale a dire se sia davvero possibile comunicare in modo efficace oppure se tutti siamo inevitabilmente confinati nei nostri schemi mentali – e, prevedibilmente, non sono in grado di andare oltre l’introduzione prima di arenarmi in modo infelice, restando con mille brandelli di pensiero che non sono in grado di coordinare. Insomma, è probabile che il progetto non vada mai in porto.

Però, insomma, se Kant si prende davvero tutta questa parte dei miei pensieri, parliamo di lui. Qualcuno l’avrà già immaginato – evidentemente non avevo intenzione di scrivere un elogio di un modo verbale. Ebbene sì, l’Imperativo Categorico (maiuscole, maiuscole!). Chiariamo subito che non pretendo di averlo capito né di averne compreso le implicazioni a livello filosofico. E allora di che parli, di grazia? Racconto un esperimento che deciso di fare. Una cosa probabilmente abbastanza sciocca: proviamo, mi sono detta, ad applicarlo come regola nella vita reale. Un po’ per gioco – approccio che piacerebbe molto poco a K., vista l’enfasi che pone sul rispetto per la legge e sulla partecipazione sentimentale necessaria all’etica. Ma tant’è. Giocando si fanno e dicono le cose più interessanti. Chissà che la mia intenzione non sia persino seria. In ogni caso, tutto parte da qui:

“Agisci in modo che una massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale.”

Ovvero, nella mia interpretazione presumibilmente riduttiva: “ogni volta che agisci compiendo una scelta morale, chiediti sempre cosa succederebbe se tutti compissero la stessa scelta nella stessa situazione (e valuta di conseguenza ciò che stai per fare)“. Quale sia la differenza tra questa frase e una formula del tipo “chiediti sempre cosa devi fare”, nonché cosa significhi, a livello pratico, applicare questa regola, lo sto sperimentando negli ultimi due giorni (vale a dire nel tempo che è trascorso dalla mia decisione epocale). Innanzitutto diventa inevitabile comprendere quante delle nostre azioni si possano definire “morali”. E questo già non è facile. Per ora, la mia risposta è “compio un’azione morale quando agisco liberamente (almeno in un certo grado) in vista di un fine”. Sospetto che K. già non sarebbe d’accordo con questa definizione di lavoro. Io intanto non sono gran che sicura della necessità di un fine. Però non compirei una scelta se non in vista di un fine, raggiungere il quale mi sembri evidentemente un bene. In ogni caso, le scelte “morali”, anche con questa definizione imprecisa, si presentano in numero altissimo. Niente di sorprendente. Solo che per applicare coerentemente la mia versione dell’imperativo categorico bisogna prestare attenzione a ogni singola scelta che si stia compiendo. Insomma, ogni volta, o quasi, che si agisce in modo non automatico bisognerebbe chiedersi “cosa succederebbe se tutti…?”. Cosa che richiede discreta presenza di spirito. E una grande attenzione nell’analisi di cosa si stia effettivamente facendo. Per evitare i paradossi che derivano da definizioni sbagliate, come il classico episodio dell’assassino. Un uomo bussa alla vostra porta con un coltello chiedendo dove sia un vostro amico e dichiarando di volerlo uccidere. Voi sapete dov’è e potreste dirglielo. Cosa rispondete? “Se tutti mentissero il mondo sarebbe sicuramente un posto peggiore, quindi bisogna dire la verità”. Come no, certo. A parte che se tutti fossero sempre sinceri penso che il mondo sarebbe un inferno – provate comunque a riformulare la questione in questi termini: “Se tutti mentissero per salvare la vita a un altro essere umano, che cosa succederebbe?” Qualcuno ha qualche dubbio, a questo punto? Paradosso solo apparente (nonché un tantino forzato)! Anche un buon uso dei quantificatori “sempre”, “talvolta”, “mai” è utile (su questo sono quasi sicura che Kant non sarebbe affatto d’accordo). Ma a questo punto bisogna fare attenzione alla naturale tendenza della coscienza umana a trovarsi delle attenuanti. Insomma, bisognerebbe essere imparziali con se stessi, il che è (forse) impossibile.

In fondo, la santità non è di questo mondo. Per fortuna. C’è un’ultima difficoltà da affrontare nel mio gioco sull’imperativo categorico: si pecca in atti, pensieri, parole e omissioni. Non è facile analizzare correttamente una scelta morale che si sta compiendo, ma cosa dire di una che non si sta compiendo? Eppure evitare di scegliere, di agire, è tanto spesso più dannoso che l’azione. Cosa succederebbe se tutti fossero indifferenti, senza neppure rendersene conto? Molto, molto male indubbiamente. Poi, certo, cos’è il male? Cos’è il bene? Aiuto. Non voglio naufragare negli scogli della filosofia.

È un gioco, per carità. La cosa più preoccupante è che in questi due giorni ha funzionato. Sono decisamente più serena. La prossima domanda è “sono soltanto convinta di star agendo bene, oppure lo sto facendo davvero ed è questo ad appagarmi?”. Time will tell (ecco, sono persino in tema con la data di oggi). Cerchiamo di non prenderci troppo sul serio. D’altronde, cosa succederebbe se tutti applicassero sempre (la mia versione del) l’imperativo categorico?

Esercizio di lettura per apprendisti filosofi

April 20, 2011 § Leave a comment

Proseguo oggi con le mie riflessioni su quanto leggere, e soprattutto leggere filosofia, possa essere un’operazione complicata. Con Kant le cose vanno un po’ meglio – sembra che il trucco sia procedere a velocità ridottissima, e in effetti andando avanti di una decina scarsa di pagine in un’ora sono riuscita a capire cosa stesse dicendo. A prezzo, com’è ovvio, di una noia mortale. Per fortuna esistono letture più leggere.

Per quel che riguarda la narrativa, ho appena finito un libro di Eric-Emmanuel Schmitt che definirei alquanto deludente: uno spunto come quello scelto dall’autore poteva portare a un’ottima storia, ma nascondeva il rischio di uscirsene invece con una banale, trappola in cui Schmitt è caduto, se non completamente, in buona parte. Il genere di libro, insomma, che ti lascia addosso la voglia di riscrivere il finale (o, in questo caso, una buona metà del tutto). Ciò nonostante, la lettura è stata rilassante e piacevole, il che basta e avanza.

Tornando alla filosofia, andrei a condividere gli spunti incrociati che mi arrivano dalla (ri)lettura degli Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi di Roberta De Monticelli e dall’ultima conferenza del solito ciclo organizzato dalla libreria Ubik – ultima nel senso che non ce ne saranno altre, questa volta –, nella quale si è parlato di Socrate, del Fedone e di come si rischi di diventare misologi come si diventa misantropi. Chi è un misologo? È colui che, come qualsiasi classicista intuirà (spero), odia i discorsi. Nel senso che a furia di sentire discorsi che all’inizio sembrano verissimi, mentre a un secondo esame si dimostrano falsi, decide che evidentemente non esistono né discorsi veri né falsi, e si rassegna a ciò – così come il misantropo, dopo aver conosciuto molti uomini che gli sembravano degni di fiducia e che in seguito si sono dimostrati “diversi”, smette di prestar fede a qualunque uomo e si ritira nel proprio isolamento. Certo, secondo Platone (e Socrate con lui, in questo caso, ammesso che di Socrate si possa parlare) la verità esiste sempre e comunque: se un discorso ci sembra prima vero e poi falso e poi ancora vero e poi ancora falso, è perché noi stessi siamo in difetto, non siamo in grado di giudicare correttamente – così come il misantropo non pensa al fatto che gli uomini, effettivamente, non sono né perfetti né assolutamente malvagi, quindi in realtà non li conosce. Si può essere d’accordo o meno con questo principio platonico della verità (personalmente, come forse si può immaginare, non credo di esserlo); in ogni caso, resta valida l’esortazione socratica (ma l’avevano già detto poco prima di lui Simmia e Cebete nello stesso dialogo) a “comportarsi da uomini e procurare di essere sani”, vale a dire a continuare la ricerca anche di fronte a chi affermi che non ci sarà un punto di arrivo, proprio perché non esiste una verità assoluta cui arrivare. Aggiungo io: alla fine, arrivare a una verità non è così importante. Proprio perché questa verità, una volta “acquisita”, farebbe cessare la ricerca (a meno che, con stupefacente saggezza, il ricercatore non ammetta che il proprio intelletto limitato possa aver riconosciuto per vero e assoluto un principio magari valido, ma solo in alcuni casi). Invece “una vita senza esame non è degna di essere vissuta”, come diceva lo stesso Socrate. O, se si preferisce una visione diversa, καλός ὁ κίνδυνος, vale la pena di correre il rischio: vale la pena di ammettere che una verità ci sia, e che la si debba cercare. Ripeto che non sono sicura che ci sia bisogno di una verità: la ricerca da sola porta al bene – ammesso che un bene ci sia, ma questo è l’eterno problema di chi tenta di mettere in discussione i valori.

Già, mettere in discussione i valori. E qui torniamo alla signora De Monticelli, che io continuo ad apprezzare molto pur non essendo tendenzialmente d’accordo con quello che scrive, e al suo libro. Questo, partendo dal presupposto che “se l’etica è la logica dell’agire giusto, la logica è l’etica del pensare”, si divide in due parti: la prima tratta, appunto, di logica, mettendo in discussione quelle affermazioni che volendo porsi “al di fuori” di essa si ritrovano invece “contro” di essa (il riferimento è a Heidegger in Che cos’è la metafisica e alle critiche mosse da Frege al teologo Bernard Pünjer); la seconda invece analizza la visione fenomenologica del male in Dostoevskij. Certo, descritto così sembra un libro mostruosamente difficile; in realtà, si rivolge a un pubblico più o meno digiuno di filosofia, anche se una semplice formazione liceale aiuta a cogliere un bel po’ di riferimenti storici. Tralasciando la maggior parte dei contenuti interessanti del libro (chi vuole lo legga, a mio parere ne vale comunque la pena), mi soffermo su una strana reazione, per tornare alla tematica iniziale, che la lettura di questo mi provoca (e mi ha provocato anche la prima volta). La prima sezione, quella dedicata alla logica e a come si debba parlare dell’essere e del nulla, mi è sembrata di nuovo un tantino capziosa. Insomma, sembra proprio che l’autrice (o chi per lei, visto che la critica è ripresa da Carnap) voglia avere ragione, su Heidegger in particolare, a qualunque costo, senza sdegnare scorciatoie alquanto illecite (ad esempio quando dichiara intrascrivibili in simboli logici le affermazioni heideggeriane, anche se questo sarebbe tutto da dimostrare). Irritante anzichenò. Posto questo, arrivando alla seconda sezione, quella su Dostoevskij, la mia lettura, da ostile che era, è diventata improvvisamente benevola, per il semplice fatto che la De Monticelli sostiene quella che al momento mi sembrava una mia idea (nel senso che la condivido, non nel senso che l’ho inventata): che si possa dare “un’etica senza Dio” in quanto i valori morali risiedono “nelle cose stesse” e non devono essere garantiti da un’autorità metafisica esterna. Questo, soprattutto se detto da una persona all’apparenza credente come la nostra autrice, è un bel passo avanti rispetto ad alcune visioni etiche (mi dicono però che l’avrebbe già fatto un certo Kant, giusto per tornare a vecchi argomenti, e non vedo l’ora di sapere come). Già, ma aspetta un attimo. Mi fermo a metà di un paragrafo a riflettere. Leggendo, mi sono talmente convinta delle tesi espresse dal testo da perdere di vista un punto fondamentale. E cioè che, in realtà, non sono d’accordo. Non era quella la mia tesi. Anzi, dire che i valori risiedano nelle cose mi sembra un po’ una sciocchezza, a dirla tutta. Nelle cose dove? E quali cose, visto che definire “cosa” un’azione come “far violenza a un bambino” mi sembra un po’ rischioso? Piuttosto, i valori risiedono nel modo in cui gli uomini vedono le cose: non nel senso che ciascuno stabilisce cosa sia bene e cosa sia male, che è l’assunto contro cui la De Monticelli si scaglia, ma nel senso che c’è un modo prettamente umano di vedere il mondo, e che da questo nasce un sistema di valori condivisi. Fino a un certo limite (la società in cui si cresce ha un fortissimo influsso sul paradigma di valori), ma soprattutto ammettendo che questa visione possa cambiare parzialmente col tempo. Questo non significa che far violenza ai bambini diventerà improvvisamente lecito, ma significa non escludere a priori di rimettere in discussione le proprie certezze. Sì, anche in materia morale. È rischioso ma necessario, e se gestito con attenzione credo possa essere vantaggioso.

Certo, mi rendo conto che il rischio possa essere alto. Io, personalmente, sono convinta della forza di questo sistema di valori insito nella visione umana – oltre che della facilità, per un individuo, di offuscarlo e della libertà di rifiutarlo, ma senza distruggerlo in quanto riguarda l’intera umanità.

In conclusione (perché sono stata orrendamente prolissa!), è facile lasciarsi convincere da un discorso che ci sembra vero, e poi abbatterci quando qualcuno (o peggio noi stessi) ci fa notare che forse non lo è in tutti i casi. Basta non arrendersi e continuare a pensare. E, in fondo, ricordare che “parlare scorrettamente non solo è cosa fuor di melodia, ma fa male all’anima” (Fedone 115). Affermazione con cui la De Monticelli sarebbe certamente d’accordo.

La difficoltà di leggere Kant (e altro ancora)

April 12, 2011 § Leave a comment

Premessa: questo post sarà frammentario. Sono troppo stanca per scrivere qualcosa di coerente e coeso. Cosa piuttosto prevedibile, se si considerano i ritmi che ho tenuto nelle ultime due settimane. Fortunatamente – o forse no –, domani partirò alla volta di un certamen certamente entusiasmante – o forse no –, che mi terrà lontana dai pensieri scolastici almeno per qualche tempo.

In ogni caso, vediamo di raccogliere qualche impressione degli ultimi giorni. A scuola, abbiamo iniziato Kant. E non è poco. Per il momento, grandi promesse e linguaggio incomprensibile. Ho provato a leggere qualche suo scritto, e confesso di non capire una parola. O meglio, le parole si capiscono. Solo che sembrano susseguirsi senza il minimo senso, non dico logico, ma umano. Forse perché ogni passaggio è talmente denso di contenuto che bisognerebbe soffermarsi su ogni riga, ma così si perderebbe il significato complessivo del testo. E allora mi sono chiesta: come mi devo approcciare a un testo di cui non riesco a capire neppure il significato generale? Perché siamo davvero a questi livelli. Sono abituata a comprendere, nella quasi totalità dei casi, quello che leggo. Quando non capisco, per lo meno colgo il nucleo dell’argomentazione. Con K., nulla. Potrei leggerlo in tedesco e non otterrei risultati molto peggiori. E, paradossalmente, fatico a trovare una strategia efficace di approccio. Per fortuna esistono i manuali. Ma non potrò ricorrere sempre ai manuali, quando non comprenderò qualcosa. È un problema che dovrò risolvere nell’immediato futuro.

Il problema è che la filosofia non è la matematica, come oggi diceva il mio professore: non c’è un sistema di regole da cui dedurre tutto il necessario a procedere. E non è neppure il greco, che tutto sommato ha una grammatica cui fare riferimento (anche se spesso qualche autore mi ricorda che la grammatica, ahimè, non salva nessuno davanti alle vere difficoltà). O si capisce, o non si capisce. E se non si capisce, si rilegge. E ancora. E ancora. E alla fine si cerca un manuale. Sperando che sia scritto bene. Motivo per cui, in fondo, sarebbe anche importante che i filosofi scrivessero in un linguaggio il più possibile chiaro. Ma immagino che a K. sembrasse tutto chiaro, mentre scriveva, nevvero?

Passiamo ad altro, anche se alla fine sempre di parole si tratta – questo discorso sta venendo fuori molto più coerente di quanto non credessi –: si avviano alla conclusione le lezioni sul logos della professoressa Mariano. Intanto ho letto il breve libro di Zagrebelsky cui il ciclo fa riferimento, ma progetto di dedicarvi un discorso a parte. Per ora, mi limito a due parole sull’ultima lezione, che verteva sull’Encomio di Elena di Gorgia. Tutto il contrario di Kant, se mi è concesso il paragone cronologicamente alquanto ardito. A fronte di un discorso densissimo di contenuti ma arduo e pesante, qui abbiamo un discorso sul puro nulla (Elena è indifendibile, e comunque a nessuno interessa difenderla, e comunque Gorgia stesso sa di essere perfettamente in grado di farla condannare, se volesse) che raggiunge però vette di perfezione formale tanto alte da convincere chiunque. Convincere del nulla, certo (in ogni caso, l’essere non è comunicabile); ma di fronte al lettore, in effetti, Gorgia riesce a fingere non soltanto indiscutibile raffinatezza estetica ma anche qualcosa che somigli alla densità speculativa. Magie della parola incantatrice. D’altronde, chi ha detto che i Greci non concepissero la bellezza fine a se stessa? Ma anche su questo non mi dispiacerebbe tornare (se solo non fossi così stanca…).

Insomma, alla fine sono riuscita a dare quasi un senso logico anche a questo post. Di certo non posso pretendere di incantare nessuno con la bellezza della mia scrittura. E non è una professione di modestia. Mi basterebbe comunicare. Altra cosa su cui riflettere: come si comunica e con quali codici comuni. Magari tra qualche anno ne riparleremo.

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