Considerazione [sono una persona modesta]

February 16, 2012 § Leave a comment

Frase del giorno: “Salve. Qui tutto ti è facile e amico.” Bella frase da mettere all’ingresso di una biblioteca. Anche se forse in arabo non ha un grande effetto comunicativo.

Mettiamola così: ho un problema etico.

Almeno da Kant in poi (ma qualcuno lo avrà detto già prima, su, non è complicato), qualcuno ha pensato di stabilire come principio fondamentale dell’etica quello della libertà. Un’azione è morale, e di conseguenza passibile di un giudizio morale, quando dipende dalla volontà dell’individuo e non da costrizioni esterne. Ora, in fondo, già su questo avrei delle leggere riserve. La volontà di un individuo dovrebbe essere un principio libero. Si può compiere un’azione non avendo altra scelta e dando il proprio assenso, oppure si può compiere un’azione non avendo altra scelta ma perseverando nella propria volontà di non compierla. Il problema finisce dunque per sdoppiarsi: chi compie un’azione moralmente condannabile non avendo altra scelta è colpevole? O lo è soltanto se dà il suo assenso? O lo è in misura minore se non avrebbe voluto farlo? Si può essere colpevoli in misura minore? (ok, questo sì, o la mia morale rischia di diventare una mostruosità più di quanto già non sia) E soprattutto, che senso ha ragionare in astratto su qualcosa di cui solo l’individuo può avere coscienza per se stesso? Che poi, la mia etica non concede la possibilità di condannare gli altri per le loro azioni senza conoscerne pienamente i motivi, il che è impossibile, perché la visione del mondo di ogni altro individuo ci è preclusa. (Ciò non toglie che si possa giudicare ed esprimere un giudizio sulla condotta altrui – sono una moralista –, a patto che ci si ricordi che il proprio giudizio è inevitabilmente parziale e fallace, con tutte le conseguenze del caso – e qui ci sarebbe da discutere del fatto che diritto e morale non coincidono, ma questa parentesi si sta allargando troppo.)

Insomma, già la questione della volontà è un problema rilevante su cui sto tentando di ragionare. Anche perché, chi lo dice che sia veramente libera? Siamo fatti di processi biologici di cui abbiamo una coscienza estremamente limitata. All’inizio di settembre ascoltavo un neurologo spiegare che nel momento in cui ci rendiamo conto di aver preso una decisione i nostri processi cerebrali si sono, a quanto risulta dagli esperimenti, già avviati. Anche il rapporto tra speculazione (oh dear, not Hegel again) filosofica e progresso scientifico è una questione enorme, maledizione. Ma sto decisamente divagando.

Il mio problema più recente non riguarda il principio etico della volontà, ma un’altra proposizione apparentemente scontata che sta altrettanto, se non di più, a fondamento della morale. Vale a dire che ogni nostra azione ha conseguenze. Mi si dirà che non è vero, che spesso non si riesce a ottenere nulla (è uno dei motivi per cui l’etica, almeno in un’ottica kantiana, valuta le intenzioni e non i risultati). Non intendo dire che ogni azione ha le conseguenze desiderate. Intendo dire che ogni nostro atto, anche il più piccolo, il più futile, ha degli effetti sul mondo esterno. Lo modifica. Altrimenti non avrebbe alcun senso parlare di questioni o di giudizi o di alcunché di morale. E a questo punto si apre un abisso.

Il punto è: se ogni mia azione ha delle conseguenze, di quali di queste conseguenze io mi devo ritenere responsabile? (Nota fondamentale: quando dico “io” intendo esattamente io. Me. Non un individuo ipotetico, perché quello non lo potrei giudicare correttamente, mentre posso e devo giudicare me stessa.) Tecnicamente, anche ogni volta che respiro modifico l’ambiente esterno in modo rilevante. È vero che questa azione non è subordinata alla mia volontà, quindi forse non me ne devo preoccupare. E poi, sarebbe difficile definire se l’effetto delle mie emissioni di anidride carbonica, agenti patogeni e affini sia positivo o negativo dal punto di vista etico. Ma mettiamo il caso che io faccia qualcosa nel senso più comune, che io compia una scelta etica, prendendomene le responsabilità. Questa mia azione, qualunque sia, potenzialmente modificherà (seppure, per carità, in minima parte) l’ambiente con cui si relazionano svariate persone. Più importante è la mia scelta più vaste o più gravi saranno le conseguenze sull’ambiente esterno. Ora, io dico: qual è il discrimine tra le conseguenze di cui sono responsabile e quelle che non mi riguardano? Mi si dirà: sei responsabile di quello che riesci a controllare. Buona risposta, e poi, si sa, la parola mi piace. Cosa significa, però, controllare? Essere in grado di contribuire alle cause di un evento? In tal caso, se la mia azione precedente ha contribuito a causarlo, allora io ne sono automaticamente responsabile. Anche se fossi la proverbiale farfalla che battendo le ali in Indonesia ha causato, tramite una catena di fenomeni inspiegabile di cui non ha coscienza, un tornado in Kansas. Ah, i dilemmi etici dei lepidotteri.

Ecco, vedete? In realtà, tutto questo è ridicolo. È ridicolo perché, me ne rendo conto scrivendo (be’, diciamo che prima lo sospettavo), forse ho impostato il problema al contrario. In realtà, io sono responsabile non di quello che posso provocare più o meno direttamente, ma di quello che avrei potuto impedire. Le concause che determinano un evento sono innumerevoli, come direbbe il solito Tolstoj. Solo che, e non ricordo se di questo il vecchio russo avesse tenuto conto, ci sono casi in cui l’eliminazione di una sola causa è sufficiente a impedire che un evento si verifichi. Se questa causa dipende da me, allora io sono responsabile del verificarsi o meno di quell’evento. Tutto qui. Tutto semplice.

Oppure no. No perché questa non è una risposta definitiva, non è condivisibile (o almeno, sospetto che qualcuno non la condividerà) e non è detto che sia valida. (Notate la climax?) No, soprattutto, perché anche così le responsabilità di cui tener conto sono una massa spaventosa. Forse io sono troppo fragile. Forse sto sbagliando i conti. Ma mi sembrano sempre e comunque più di quanto mi aspettassi. Tutto questo non era previsto dal contratto. Dov’è il mio diritto di recesso? Dove si restituisce il biglietto? Eppure non posso e non devo non tener conto di questo principio di base. Ogni mia azione ha conseguenze sugli altri. Che si traduce in, semplicemente, sta’ attenta a quel che fai. Piccoli imperativi non categorici.

PS Qualcuno si starà forse chiedendo chi io sia per pensare di poter dare qualche risposta a questioni così grandi (o magari per giudicarle più importanti di altre). Nessuno. Sono una persona che fa fatica ad accettare molte cose.Per quanto io provi a negarlo, sono una creatura.”

PPS Il titolo è un po’ autoreferenziale, forse.

Epigramma del giorno: Meleagro

February 11, 2012 § Leave a comment

A.P. V 182

Ἄγγειλον τάδε, Δορκάς· ἰδοὺ πάλι δεύτερον αὐτῇ
καὶ τρίτον ἄγγειλον, Δορκάς, ἅπαντα. τρέχε·
μηκέτι μέλλε, πέτου – βραχύ μοι, βραχύ, Δορκάς, ἐπίσχες.
Δορκάς, ποῖ σπεύδεις, πρίν σε τὰ πάντα μαθεῖν;
πρόσθες δ’οῖς εἴρηκα πάλαι – μᾶλλον δέ (τί ληρῶ;)
μηδὲν ὅλως εἴπῃς – ἀλλ’ὅτι – πάντα λέγε·
μὴ φείδου τὰ ἅπαντα λέγειν. καίτοι τί σέ, Δορκάς,
ἐκπέμπω, σὺν σοὶ καὐτός, ἰδού, προάγων;

Riferisci questo, Dorcade; riferiscile, ecco, un’altra volta,
di nuovo, tre volte, Dorcade, tutto. Corri!
non indugiare, vola – un attimo, ti prego, Dorcade, aspetta.
Dorcade, dove corri, prima di aver sentito tutto?
Aggiungi a ciò che ho detto prima – piuttosto (perché ciarlo?)
non dirle niente del tutto – o magari – dille ogni cosa:
non risparmiare di dire ogni cosa. Ma insomma, Dorcade,
perché ti mando se, ecco, vengo anch’io con te?

[piccolo problema: Δορκάς propriamente significa gazzella o capriolo.]

RPM: Dettaglio

February 7, 2012 § 1 Comment

Canzone del giorno: The Raveonettes, Veronica Fever.

In anni di patetici tentativi letterari (di cui il meglio che mi è rimasto è il piano di un romanzo che non scriverò mai ma che conteneva forse uno, e dico uno, spunto interessante), una cosa l’ho capita: la descrizione è un esercizio che mi fa bene. In effetti, è in sostanza l’unico che mi riesca. Talvolta mi trovo in preda a momenti di percezione esaltata, in cui mi sembra di notare qualunque cosa io veda e di essere in grado di tradurla in parole, oppure le sensazioni che immagino si traducono quasi in percezioni reali, o in anticipazioni di percezioni, estremamente appaganti. Per capirsi almeno un po’: oggi leggevo un fumetto ambientato su un aereo in volo, e mi sono resa conto che non vedo l’ora di partire per la Grecia solo per provare la sensazione di pressione al momento del decollo. Il mio stomaco si sta ancora contorcendo di piacere. In ogni caso, durante questi momenti descrittivi talvolta mi capita di mettere anche effettivamente qualcosa su carta. Circa un anno fa mi ero messa a descrivere il più dettagliatamente possibile i polsi di ciascuno dei miei professori. Scrivevo durante le lezioni, e sì, in caso qualcuno se lo chiedesse, mi rendevo conto di quanto la cosa fosse terribilmente inquietante. Si sa, i polsi mi affascinano. I risultati sono stati alquanto imbarazzanti, e non ho intenzione di recuperare qualche vecchio taccuino per rileggerli. Nondimeno è un buon esercizio lessicale, per una persona che tende a usare sempre gli stessi aggettivi e gli stessi maledettissimi avverbi (è una malattia, lo so, è una malattia).

Il senso di questa assurda introduzione (ma in realtà tutto quello che scriverò stasera sarà assurdo, e qualche linea di febbre non aiuta) è annunciare che sono entrata da qualche giorno in un momento descrittivo, e soprattutto spiegare almeno un minimo perché questo post è dedicato all’osservazione degli angoli della bocca. Il che, mi rendo conto, è ancora più inquietante dei polsi (o forse no, per chi mi conosce). Non c’è bisogno però di grande capacità speculativa (o di aver visto qualche puntata di Lie To Me) per sapere che gli angoli della bocca sono uno dei massimi veicoli delle espressioni facciali, e di conseguenza dell’intonazione emotiva, per così dire, di un discorso. In realtà, non è solo su di loro che mi sto concentrando, bensì sulla metà inferiore del viso in generale: oggi mi sono trovata a guardare (causa interessante corso di approfondimento scolastico) un filmato di un gerarca nazista che parlava in pubblico, e sono rimasta tra l’angosciato e l’affascinato notando quanta dell’aggressività che non traspariva dalle parole era evidenziata dall’atto di stringere ripetutamente i denti, facendo sporgere le estremità laterali della mandibola. Prescindendo completamente dal contesto (l’effetto collaterale più evidente di queste piccole ricadute nella vita estetica è proprio di allontanare qualunque osservazione più ampia della pura impressione sensoriale), è un movimento che mi affascina, soprattutto perché lo faccio spessissimo. In più è, appunto, estremamente violento, benché non preveda né gesti ampi né di scoprire i denti o altre parti minacciose. Ricorda che c’è qualcosa che va tenuto sotto controllo, altrimenti diventerebbe pericoloso. Ah, e fa venire dei gran mal di testa quando se ne abusa.

Ma torniamo a questi benedetti angoli della bocca. Si dà il caso che la mia professoressa di matematica e fisica sia una donna dall’espressività facciale parecchio ridotta. O, come direbbe mia madre, è un po’ figée. Insomma, lei non sorride, lei scoppia a sorridere, perché un sorriso per lei è un gesto clamoroso. Almeno quando arriva a coinvolgere gli occhi. Proprio per questa caratteristica, se si vuole interpretare in qualche modo il suo umore (che resta comunque stabile a livelli ammirevoli), è necessario prestare grande attenzione ai piccoli movimenti, ai particolari del viso. E qui entrano in gioco i nostri angoli. Non so quanto volontariamente, la mia professoressa sembra concentrare ogni espressione in quel punto. Una sorta di riduzione a icona della mobilità facciale, per cui ogni sfumatura comunicativa si traduce in una piccola differenza di tensione (valore base “nervosismo”), abbassamento (valore base “rabbia, disappunto, stai rispondendo male”) o sollevamento (valore base “non sorrido perché sono una persona compassata e questo non è abbastanza per convincermi, ma sto apprezzando quello che dici”). Non c’è nulla di meglio per attrarre l’attenzione di una persona in fase descrittiva come me. Per attenuare la forte impressione di interesse perverso che tutto questo post offre, dirò a mia difesa che è una pura questione astratta. La possibilità di ridurre il movimento al minimo mantenendone comunque il significato mi affascina. Gli angoli della bocca della mia professoressa sono vettori dell’umore, la cui circuitazione alla fine di ogni ora di lezione è bene che sia, per mantenere un buon equilibrio, pari a zero. Sapere che questo, con ogni probabilità, succederà ogni giorno è estremamente rassicurante.

Il che mi porta alla considerazione conclusiva, appena suggeritami peraltro da uno scambio di pensieri con una persona che ama molto le parentesi ed è curiosa di leggere il risultato dei miei deliri percettivi. In effetti, la maggior parte degli individui tende a non notare questo genere di particolari, ovvero a non registrare tutte le sfumature che accompagnano un messaggio (laddove per “sfumature” intendo l’interpretazione dettagliata della comunicazione non verbale, toni di voce, microespressioni e compagnia): è anche, credo (ma forse sono influenzata dalla mia prospettiva), una sorta di misura di sicurezza. Non tutto quello che ci viene detto ci deve importare, né tanto meno l’insieme dei suoi significati nascosti. Io sono stata definita “iperosservatrice”, e ne vado orgogliosa; ma questo significa che quando i segnali che una persona lancia, in particolare quelli negativi, diventano troppo evidenti, la pressione per me tende a diventare insopportabile. E non è soltanto perché quello che percepisco, spesso, mi importa, anche troppo; è una mera questione di sensibilità. Quando stai ascoltando uno scricchiolio, se qualcuno si mette a urlare è parecchio probabile che ti spaventerai. A maggior ragione se, come me, trovi che la rabbia o peggio ancora l’aggressività siano due aspetti emotivi pericolosamente ingestibili.

Insomma, in caso qualcuno volesse comunicarmi la propria irritazione ottenendo una risposta razionale (diversa dal nascondersi sotto un tavolo), consiglio vivamente di non alzare la voce e invece abbassare gli angoli della bocca. Forse è meno appagante, ma risparmia una notevole componente di stress.

NB Dopo breve dibattito interno ho deciso di archiviare anche questo post come Random Person Moment. Non è del tutto appropriato, ma mi sembra accettabile. E poi, così per questa settimana mi sento a posto.

Epigramma del giorno: Filodemo di Gadara

February 4, 2012 § Leave a comment

A.P. X 79

Νυκτὸς ἀπερχομένης γεννώμεθα ἦμαρ ἐπ’ἦμαρ
τοῦ προτέρου βιότου μηδὲν ἔχοντες ἔτι,
ἀλλοτριωθέντες τῆς ἐχθεσινῆς διαγωγῆς,
τοῦ λοιποῦ δὲ βίου σήμερον ἀρχόμενοι.
μὴ τοίνυν λέγε σαυτὸν ἐτῶν, πρεσβῦτα, περισσῶν·
τῶν γὰρ ἀπελθόντων σήμερον οὐ μετέχεις.

Quando Notte si allontana nasciamo giorno per giorno
non conservando nulla dell’esistenza trascorsa,
divenuti estranei alle azioni di ieri,
iniziando oggi il resto della vita.
Non dire dunque, vecchio, che sei di anni abbondanti:
di quelli trascorsi oggi non partecipi.

[prima o poi inizierò a tradurre anche qualcosa di più impegnativo. Per ora continuo con l’Antologia Palatina.]

RPM: Essere

February 3, 2012 § Leave a comment

Citazione del giorno: “How did it get so late so soon?/ It’s night before it’s afternoon/ December is here before it’s June/ My goodness how the time has flewn/ How did it get so late so soon?” [Dr Seuss]
Non c’è un motivo particolare.

Hai una sigaretta?”
No, mi dispiace.

Perché non hai una sigaretta?”
Perché non fumo. [perché ti stai strofinando contro la mia spalla?]

Perché non fumi? Dovresti fumare!”
Così divento intelligente come te? [lo so, laaaame. Ma ero molto occupata a scrollarmi di dosso lo stupido ragazzino che continuava a prendermi a spallate.]

Dovresti fumare! Dammi una sigaretta!”
Adesso smettila!

Hahahahah, ma chi sei? Ma lo vedete? Quest’essere!

Ebbene sì, qualche ora fa un ragazzino – occhi azzurri, lentiggini, capelli forse rossi, piercing al labbro, viso poco a fuoco in quanto a cinque centimetri dal mio – ha tentato di provocarmi, debitamente supportato com’è ovvio da un gruppo di coetanei altrettanto adorabili. Ora, non è che io mi sia offesa. D’accordo, un po’. Mi ha dato parecchio più fastidio il fatto che avesse invaso il mio spazio personale. Quello che mi ha stupita, a dire il vero, è stata la finezza dell’insulto. Insomma, Quindicenne-col-piercing avrebbe potuto apostrofarmi in svariati modi. Se ho capito qualcosa delle sue intenzioni, avrebbero avuto tutti a che fare col mio aspetto o con ciò che della mia sessualità il mio aspetto lascia intendere. Non sono neppure gran che sicura che si sia accorto che sono una ragazza. In effetti, porto ormai i capelli molto corti e con mia grande soddisfazione ho dei tratti abbastanza ambigui. Evidentemente dovevo avere un’aria molto stravagante, oggi, se il gruppetto mi ha notata come elemento d’interesse; cosa che normalmente non succede, o almeno non più da quando sono tornata al mio colore naturale. In ogni caso, mi vengono in mente una serie di epiteti che il mio aspetto potrebbe ispirare (e non li scriverò), ma “essere” non è nell’elenco. Non perché non sia calzante; al contrario, è forse quello che mi si adatta più precisamente. Nell’insultarmi, il ragazzino mi ha descritta; e ha anche mostrato una certa proprietà lessicale, perché definire qualcuno “essere” non è da tutti. È probabile che sia stato un caso, e che il simpatico fanciullo non abbia particolari doti nell’indovinare il carattere degli sconosciuti; ma nel caso in cui io mi fossi imbattuta in un piccolo prodigio dell’insulto, mi dispiace non aver avuto il coraggio di fermarmi e dirgli un paio di cose. Sarei potuta suonare più o meno così.

Ragazzino. Ci sono almeno tre cose che non hai capito. Tutte e tre si riassumono in ‘non si va in giro a insultare sconosciuti per divertimento’. Ma ti spiegherò, perché evidentemente nessuno l’ha mai fatto, o tu da quell’orecchio non ci senti.

Prima di tutto, sì, sono un essere. A rigore, lo sei anche tu. Ma io lo sono proprio nel senso che tu intendi come insulto. Esattamente come sembra, o come sembrerebbe se tu avessi interesse a rifletterci un momento anziché insultarmi, non mi ritrovo gran che nelle definizioni di genere che vengono date normalmente. Se te ne serve una, puoi pensare che sono lesbica, e dunque diversa da come qualcuno ti ha detto che dovrei essere, ma in realtà l’etichetta non esaurisce la mia idea di me. In ogni caso, sono diversa. Diversa non vuol dire sbagliata, e questo dovrebbe avertelo già detto qualcuno, santo cielo. Sono sempre stata orgogliosa di questo fatto, forse troppo, e ho sempre voluto che chi mi osserva si chiedesse se corrispondo alle sue categorie, che siano sessuali o intellettuali. C’è un fondo di vanità in questo, anche più di un fondo; ma c’è anche una strategia di difesa, un modo per annunciare a chiunque ‘sta’ attento, perché le tue aspettative non saranno necessariamente soddisfatte: sei stato avvisato’.

E questo è il secondo punto. Non hai nessun diritto di giudicare il mio essere (anzi, il mio essere un ‘essere’) o quello di chiunque altro, e anche se l’avessi sarebbe bene che tenessi il giudizio per te. O più che altro che non lo esprimessi in insulti. Innanzitutto perché le tue parole hanno un potere sugli altri, e non capisco perché tu possa pensare di essere in diritto di fregartene. Quello che mi hai detto andrà a intaccare le mie già labili difese nei confronti del bagaglio di insicurezze che quotidianamente mi accompagna. Ora, credo di essere abbastanza forte da non lasciarmi abbattere da una frase detta da uno sconosciuto alla stazione. Ho avuto un’ottima giornata, sono soddisfatta di me stessa, il mio stato emotivo è quasi stabile. Non è una cosa che mi succeda tutti i giorni, se ti interessa saperlo. Sono quasi contenta che tu abbia sfogato con me i tuoi istinti, piuttosto che con qualcuno momentaneamente più fragile. Ma avresti potuto rovinare la giornata a qualcuno. Per quale sacrosanto motivo ti credi in diritto di offendere un’altra persona, di farle del male (moralmente parlando)? Hai vagamente pensato alle conseguenze di quello che fai? No, perché non sei solo egoista. Non ho nulla contro gli egoisti. Ma tu pensi anche che il tuo egoismo possa essere usato come un’arma per ferire gli altri. Questo, se permetti, è abbastanza stupido. Più ci si ferisce a vicenda, tra sconosciuti ancor peggio, più il malumore generale aumenterà, più si continuerà ad offendersi a vicenda. Cosa ti costa un po’ di cortesia, un po’ di autocontrollo? Quello che hai fatto era totalmente gratuito. Non ce l’ho, una sigaretta. Se l’avessi te la darei.

Adesso penserai che sto facendo una questione monumentale di una sciocchezza. In parte sarà anche vero. Ma il punto è che tu sei anche bravo. Hai trovato la parola giusta per farmi del male. (Sempre ammesso, come da premessa, che non sia stato un caso.) Ebbene, il talento sprecato mi fa arrabbiare. Innanzitutto saresti più che in grado di usare le tue abilità per ferire qualcuno che quantomeno ti abbia offeso a sua volta. Ci sarà un tuo compagno di classe con cui litighi. E per litigare non intendo che tu lo aggredisci e lui piange. Ecco, piuttosto usa gli insulti per questo. Ma potresti essere anche abbastanza intelligente da riflettere su quello che fai, porti un minimo di problema etico, capire che non ci fai neppure questa gran figura, al limite. Perché non ci hai pensato? Non va né a tuo onore né a tuo vantaggio, prescindendo dal fatto che non è giusto. Sei fondamentalmente deludente. La cosa ti fa piacere? Ne dubito.”

Mi si dirà che sono una moralista. Per la cronaca, non posso che essere d’accordo. Intanto, il discorso al ragazzino non l’ho fatto. Sono scappata, perché aveva invaso il mio spazio personale e l’istinto mi diceva di averne paura. Odio quando mi comporto così.

Per fortuna, oggi ho davvero avuto una splendida giornata. Ho iniziato un gruppo di studio, ho parlato di lingua e cultura greca (sempre pomposa, mi raccomando) e sono stata ascoltata con interesse. Sono stata a contatto con persone piacevoli. Mi è stato ricordato, per l’ennesima volta, perché voglio fare l’insegnante. Sono soddisfatta. O meglio, lo sarei se il mio cervello non fosse un maniaco dell’equilibrio e mi restituisse un’ora di malessere per ogni ora di serenità. Ma questo non ha nulla a che fare con Quindicenne-col-piercing.

L’egoista consapevole

February 2, 2012 § Leave a comment

Frase del giorno (di ieri, a dire il vero): “perché, vedete, lei mi piace perché è così semplice, è l’alunna ideale, ragiona in modo lineare, segue le mie indicazioni e traduce perfettamente, senza problemi.” Come no. Vuole una sardina?1.

Premessa necessaria: questo post è evidentemente una risposta a smellslikewhite, la cui identità non è un mistero per nessuno ma non svelerò per le imperscrutabili regole del blogging, e perché così è più divertente. Di certo non è una risposta completa (quando mai ho dato delle risposte complete?); vi converrà probabilmente leggere il suo post prima per capire qualcosa, o quantomeno io lo consiglio, come consiglio spesso (?) di leggere le cose con cui non sono affatto d’accordo.

Ma iniziamo come si deve.

Per “egoismo” intendo (in breve) diversamente dal senso comune, il fatto che ogni nostra azione dipenda solo e soltanto da noi stessi e ritorni solo e soltanto su di noi, all’interno del guscio chiuso del nostro “ego”.

Ecco. Ci sono almeno due definizioni possibili, o due livelli, di egoismo. Uno prevede che l’individuo agisca soltanto per sé, nel proprio interesse. Si può osservare che, in effetti, noi agiamo bene perché associamo alla buona azione un benessere psicologico, una soddisfazione, anche solo l’assenza di quello stimolo negativo potentissimo che è il senso di colpa. Si noti che quando lo sforzo per ottenere questo benessere diventa superiore al beneficio (che è enorme), allora cessiamo lo sforzo stesso. Per questo siamo così sensibili a un limite che potrei chiamare “orizzonte morale”: nei confronti di chi cade all’interno di esso ci sentiamo responsabili, mentre chi ne è escluso viene trascurato nei nostri calcoli. Può essere una questione di prossimità geografica o di contatti umani o di rispettabilità o di quel che volete, il punto è che nel momento in cui agiamo in modo tale da ottenere “il maggior bene” per chi ci circonda siamo continuamente costretti a limitare questo gruppo di persone, o il concetto stesso di bene si frammenterebbe troppo perché noi possiamo perseguirlo. Un’azione morale è volontaria per definizione; ma la volontarietà toglie gratuità, non necessariamente valore all’azione stessa. A questo riguardo, potrei limitarmi come mio solito a citare Hume e il suo interlocutore immaginario:

Che ne dite, aggiungo, dell’affetto naturale? Anch’esso è una specie di egoismo?
Sì, tutto è egoismo. I tuoi bambini li ami solo perché sono tuoi; i tuoi amici per la stessa ragione, e del tuo paese ti importa solo in quanto ha un rapporto con te stesso: se togliessimo l’idea dell’io, nulla ti toccherebbe più […]
Sono anche pronto, rispondo, ad accettare la vostra interpretazione delle azioni umane, purché voi ammettiate i fatti. Dovrete cioè ammettere che quella specie di egoismo che si manifesta sotto forma di benevolenza verso gli altri ha una grande influenza sulle azioni umane; un’influenza non di rado anche maggiore di quella specie di egoismo che mantiene il suo aspetto o la sua forma originari. […] Se anche voi foste uno di questi uomini, sareste sicuro della buona opinione e della benevolenza di tutti; ossia, per non urtare le vostre orecchie con simili espressioni, l’egoismo di tutti, e il mio tra gli altri, ci spingerebbero a renderci a voi utili e a parlare bene di voi.

[“Dignità o viltà della natura umana”, in Sul suicidio e altri saggi morali, Laterza]

Hume, peraltro, è di un ottimismo indegno, e il mio studio recente degli utilitaristi inglesi e di quel brav’uomo di James Mill potrebbe avermi leggermente influenzata nelle riflessioni appena fatte. Ma non è questo il genere di egoismo in questione, anche se confondersi è molto facile. Qui si tratta piuttosto di quello che per me è forse il primo problema dell’etica: la possibilità di adottare una prospettiva che non sia la propria.

Questo può significare la semplice elezione di un principio morale a guida esterna e “assoluta” delle proprie azioni, e si può con qualche ragione affermare che un simile procedimento porti all’abdicazione dell’individuo alla propria possibilità di scelta. Il che significa però anche la negazione del principio stesso dell’etica, ovvero (poco kantianamente, mi raccomando) il principio che un’azione ha valore morale quando è libera, ovvero quando dipende dalla volontà dell’individuo che la compie. Aggiungerei: dipende almeno in parte dalla volontà, perché una responsabilità condizionata è sempre responsabilità. Il che significa peraltro che le azioni non valutabili moralmente sono pochissime, forse nessuna, perché anche nella situazione più costrittiva è (quasi) sempre possibile scegliere di non fare ciò che viene imposto.

Ma il paradosso dell’etica è un altro. Per prendere una decisione le cui conseguenze riguardino gli altri, nel momento in cui si vuole tener conto di queste conseguenze (non farlo non è un “peccato” morale, anche perché una cosa del genere non esiste: piena libertà di essere coerentemente egoisti, fino in fondo) è necessario tentare di uscire dalla propria prospettiva individuale. Perché non è vero, e non sono io a dirlo, che “le nostre azioni ritornino solo e soltanto su di noi”. Una nostra azione ha sempre un’influenza sul mondo esterno. Una morale che tenga conto degli altri non significa una morale al servizio dell’altro come se questo fosse un principio superiore (o “inferiore”!) qualsiasi. Non serve neanche dimostrare che gli altri esistano, così come non è necessario dimostrare che esista la realtà: è solo un promemoria critico, qualcosa che giustifichi il dato empirico che (apparentemente) non tutto dipende da noi. Non è neanche detto che ciò sia vero. Il punto è che il mio egoista è consapevole perché sa e non può dimenticare di essere confinato entro se stesso, che ogni sua azione dipende dalla sua volontà e quindi da nient’altro che da lui, e di non poter chiamare un principio esterno a giustificazione di un bel nulla. Eppure vuole (scegliere una morale, anche una diversa per ogni decisione se si preferisce, è un atto di volontà, dunque libero!) tentare di tener conto, nel momento in cui agisce, delle conseguenze che la propria azione avrà all’esterno di lui. Decidere che la propria libertà non sia arbitrarietà.

Questo è il punto in cui si arriva all’impasse. È inevitabile. Uscire da sé è impossibile, non si riesce ad abbandonare la prospettiva individuale, perché tutti i nostri punti di riferimento sono stati filtrati da quella prospettiva stessa. Il bene altrui (ammesso e non concesso che io sia in grado di definire “bene”) non è necessariamente il nostro, non solo in termini concreti (ciò che va bene per me non va bene per te), ma anche in teoria. Ciò che io vedo come bene o utilità universale è in realtà il mio concetto di bene e il mio concetto di utilità. Come in qualunque altra situazione, sono condannato all’egoismo conoscitivo. Eppure non sono tenuto a rinunciare qui. Il migliore esercizio sta proprio nell’esaminare se stessi, nel ricercare nei limiti del possibile quali siano i filtri che frapponiamo tra noi e l’ipotetica realtà, e una volta individuati tentare di correggere la deviazione che ne derivi. Non riusciremo mai, neppure con una ragionevole approssimazione, e la posizione non è neppure gran che difendibile a livello teorico.

Sembrerebbe che ciò non dimostri niente. A mio parere, mostra almeno una cosa: che non necessariamente chi rifiuta di fondare la propria morale unicamente su di sé sta cercando una maschera o una scusa per non esaminare continuamente le proprie decisioni. Al contrario, cerca un modo per ricordarsi di farlo di continuo. Anche se questo, alla fine, non è che il trionfo dell’egoismo, dell’autoreferenzialità, della superbia addirittura.

L’egoista consapevole esiste, e sa benissimo che la sua morale non funziona, né teoricamente né in pratica, perché ogni volta che prova a vedere la realtà e la verità degli altri gli viene il forte sospetto che qualunque corso di azione sia intrinsecamente sbagliato. Ma secondo quale termine di riferimento? Spesso pensa che la cosa migliore sia non agire, smettere di parlare e di respirare pur di non influenzare il mondo esterno, e allo stesso tempo sente che questa è la cosa più sbagliata che potrebbe fare, perché sarebbe l’insulto peggiore che potrebbe fare a se stesso. L’egoista consapevole sa di non avere una morale, tenta di costruirsela e ricostruirsela di continuo, e si accorge altrettanto spesso di quante delle sue azioni prescindano dall’analisi morale propriamente detta. Una morale che non sia valida almeno per qualcosa che senso ha? L’egoista consapevole è molto, molto frustrato.


1. Battuta poco comprensibile a chi non conosca il contesto. Diciamo che il mio professore di greco ha una certa somiglianza con un tricheco.

Epigramma del giorno: Filodemo di Gadara

January 28, 2012 § Leave a comment

A.P. IX 570

Ξανθὼ, κηρόπλαστε, μυρόχροε, μουσοπρόσωπε,
εὔλαλε, διπτερύγων καλὸν ἄγαλμα Πόθων,
ψῆλόν μοι χερσὶ δροσιναῖς μύρον‧ “Ἐν μονοκλίνῳ
δεῖ με λιθοδμήτῳ δή ποτε πετριδίῳ
εὕδειν ἀθανάτως πουλὺν χρόνον‧” ᾆδε πάλιν μοι,
Ξανθάριον, ναί, ναί, τὸ γλυκὺ τοῦτο μέλος.
(οὐκ ἀΐεις, ὤνθρωφ’, ὁ τοκογλύφος; ἐν μονοκλίνῳ
δεῖ σὲ βιοῦν αἰεί, δύσμορε, πετριδίῳ.)

Xanthò, figura di cera, pelle profumata, viso di musa,
voce melodiosa
, effigie bella di Amori alati,
suona per me con mani rugiadose di profumo: “In una bara
scolpita nella pietra è destino presto
che io dorma per un’eternità immortale;” intona per me ancora,
piccola Xanthò, sì, sì, questo dolce canto.
(non senti, insomma, usuraio? in una bara
di pietra, disgraziato, dovrai vivere per sempre.)

[Ammettiamolo, l’abbassamento di tono è un meccanismo poetico meraviglioso.]

Purtroppo, poca cosa

January 27, 2012 § Leave a comment

Brano musicale del giorno: L. van Beethoven, 7 Variazioni sul tema “Bei Männern, welche Liebe fühlen” per violoncello e pianoforte.

Stamattina ho pensato di scrivere un post per il Giorno della Memoria; avrei probabilmente fatto qualche considerazione di ordine morale. Poi mi sono messa ad ascoltare alcune testimonianze.

Una è un’intervista della Rai a Primo Levi.

L’altra è la registrazione di un incontro con Liliana Segre organizzato dal comune di Cinisello Balsamo a maggio scorso, cui io ho potuto assistere e che non sapevo fosse stato registrato.

Non ho e non posso avere altro da dire. Non perché la riflessione morale sia sospesa, perché sarebbe l’esatto contrario di ciò che deve accadere. Ma perché non ne sono ancora in grado. Ogni anno, il 27 gennaio mi rendo conto nuovamente di non essere ancora in grado di parlare. So che tra qualche anno non sopravviveranno più testimoni, e toccherà a chi li ha ascoltati continuare a raccontare. Per mantenere viva la memoria, nel senso più stretto, servono le persone, non i musei. Ringraziando il progresso, oggi siamo in grado di documentare le parole dei testimoni, non solo di ricordarle.

Non so quanti avranno voglia o tempo di guardare più di un’ora di video in totale. Nessuno può essere biasimato. Dico soltanto che farlo permette di imparare molto e di sentire altrettanto, come nessun discorso astratto (nonostante tutto il mio amore per l’astrazione) può ottenere. Io mi limito a osservare due piccole cose, piccolissime rispetto al resto. Innanzitutto come il testimone non sia e non debba essere una categoria umana. Ogni persona è diversa, e l’aver condiviso un’esperienza, per quanto impensabile, non cancella nulla di ciò. Ho avuto la possibilità di conoscere diversi ex deportati, e nessuno di questi non mi ha sorpresa. Così come sorprendono le risposte serene di Levi, di fronte alle quali l’intervistatrice, per quanto brava, non può che confondersi. Così come le risposte di Liliana Segre confondevano i professori del suo ultimo anno di liceo.

Questo veleno lei lo conserva ancora, qualche goccia di questo veleno?”
No, direi proprio di no. Sono passati molti anni, non invano; ho molto pensato su questo argomento, fa parte di un certo mio modo di vivere il riferirmi per tutte le mie esperienze posteriori a quella esperienza fondamentale. Questo veleno è esorcizzato, non mi corre più per le vene. Allora sì, in quel tempo sì…”

In secondo luogo c’è la capacità, crudelissima, di riconoscere che i carnefici restano più disumani della vittime, nonostante tutti i loro sforzi. E la capacità di riconoscersi uomini, donne di pace.

[il titolo “Se questo è un uomo”] allude non soltanto al prigioniero, ma anche al suo custode. Veramente direi che la mia esperienza fondamentale, quella specifica, è questa: quel sistema distrugge l’umanità in chi lo esercita e in chi lo subisce, in egual misura. La stessa disumanizzazione che noi subivamo perché imposta la vedevamo avvenire in chi ci custodiva, nella gerarchia nazista.”

E io lo dico sempre ai ragazzi: io sono stata molto fortunata, perché io sono stata vittima e non carnefice, perché io sono stata figlia, nipote di vittima – pensate a quei ragazzi che allora erano ragazzi delle SS, della Hitlerjugend, figli di nazisti, in casa…”

Concludo con le parole di un’altra persona, un altro testimone che ho conosciuto e che è morto da vari anni. Non so dire se le condivido; io non le avrei mai né dette né pensate. Ed è giusto così. Vale la pena di farle leggere ancora una volta; è un giorno di silenzio in meno.

Io non so, uomo sconosciuto che mi leggi, da dove vieni, cosa fai, come hai vissuto, che cosa vuoi: ma se la curiosità ti ha spinto a leggermi, ecco, questa è un’altra storia d’uomo fra le infinite storie di uomini. Perciò, e qualunque sia la tua opinione, sei già un amico. Criticami con severità e passione perché è il senso critico che spinge avanti il mondo, ma fallo con amore perché è di amore che dobbiamo impastare questa vita che tante volte è dura, cinica, eppure sempre meravigliosa se vissuta nell’amore. Io non credo nelle cose astratte e lontane, penso che le cose di questa Terra siano pur sempre costruite con la terra e, nonostante i voli della nostra fantasia, sempre con i piedi sulla terra siamo condannati a rimanere, ed i nostri corpi nella terra devono tornare a mescolarsi.
Penso anche che non saranno le idee astratte a risolvere i problemi dell’uomo, ma la saggezza e il senso di responsabilità costruiti su una attenta e continua osservazione dei comportamenti dell’uomo stesso. Saggezza che deve essere travasata nel sistema educativo, nelle famiglie, nella società, e soprattutto nel cuore di ogni persona, perché avremo una società rispettosa quando gli individui che la compongono saranno rispettosi. Per giungere a questo lontanissimo traguardo ci vorrà tanta saggezza e tanto senso di responsabilità.
La saggezza potrebbe essere la religione del futuro: quando l’uomo avrà sperimentato tutte le follie suggerite dalla sua presunzione, se riuscirà a sopravvivere, capirà che il mondo ci è stato consegnato con il compito di conservarlo in funzione della vita, per la vita. Forse perché testimone di tanto odio tra gli uomini e di tanto disamore per i beni creati, e perché vedo quei sentimenti confermati ogni giorno di più, scrivo queste righe con amarezza.
Sono un gabbiano, le mie ali sono ormai grigie, ma non stanche di volare. La voglia di vivere mi spinge sempre avanti e lontano, nella ricerca inesauribile di cose nuove. Ho avuto fortune e sfortune, e proprio per questo sono convinto che “la vita è una cosa meravigliosa”.
Oggi, sulla soglia del viale del tramonto, tutto mi appare immensamente bello, e nelle giornate cupe e tetre, quando mi prende la malinconia, è sufficiente che torni con il pensiero ai tanti giorni pieni di sole, alle corse nei prati profumati, sulle spiagge deserte del sud, sulle nevi immacolate delle Alpi, per ritrovare la gioia del dono che ho ricevuto: la vita, il mio paese, il mondo.”

[Roberto Camerani, Il bel sogno. Amare dopo lo sterminio]

PS dover selezionare è una cosa terribile. Tutto meriterebbe di essere scritto e letto. Di Roberto vorrei parlare ancora, forse tra qualche tempo.

Scrivo un post su Leopardi.

January 22, 2012 § Leave a comment

Piatto del giorno: la mastodontica Schwarzwälder Kirschtorte preparata da mio padre per il compleanno di mia nonna. Tanta panna montata.

Come già si sa, la mia professoressa di italiano adora assegnarci raccolte di poesie come compito per le vacanze. Dopo Montale e Ungaretti, poteva forse mancare la lettura integrale dei Canti di Leopardi per Natale? Che l’esperienza di leggere poesia in questo modo possa essere sorprendentemente interessante, l’ho già spiegato nel vecchio post. Nonostante ciò, neanche questa volta sapevo esattamente cosa aspettarmi. Leggere o rileggere Leopardi non era un’impresa che mi ispirasse grande fiducia.

Come credo chiunque altro, ho passato il mio periodo-Leopardi in terza media. Mi sono innamorata del poeta triste che scrive dell’infelicità della vita nel momento in cui io stessa mi rendevo conto della sua presenza costante. Mi sono rivista in tutte le poesie più famose (quelle che si possono studiare in terza media, è ovvio); guardavo le mie compagne di classe e mi chiedevo quante di loro fossero come Silvia, quante stessero a cantare mentre tessevano o piuttosto facevano i compiti, ignorando la crudeltà della natura. Proprio poche, aggiungerei col senno di poi. Non sono stata particolarmente felice o a mio agio in terza media. Un po’ come tutti. Il passo successivo sono stati i Karamazov e Pavese, oltre al Mondo di Sofia, che in fondo è tanto superficiale ma perfetto per una ragazza di quell’età. Improponibile per qualcuno che inizi a studiare filosofia per davvero. Se finirò per insegnare alle medie o al ginnasio lo consiglierò ai miei alunni. Darlo per compito è impensabile, troppo lungo, e poi parla di filosofia, stiamo scherzando?

Ma non divaghiamo. Il punto è che il mio periodo-Leopardi è finito, che mi ricorda un momento della mia vita in cui ero tutto tranne che felice e soddisfatta e che in ogni caso sono sicura di essere stata molto sciocca e superficiale, a quei tempi. Soprattutto per quanto riguarda il povero Giacomo. Che non è così povero come è facile dire, e come la mia professoressa sembra convinta si debba ripetere dieci volte l’ora, neanche fosse l’approccio critico più valido. No, a mio parere non si può spiegare un’intera poetica con un’infanzia infelice e delle carenze affettive, per quanto enormi. E soprattutto non è accettabile avvicinarsi a un poeta con l’idea che non sia altro che un povero disadattato triste e incapace di comprendere la vita se non in un’ottica di sofferenza. Non è così, Leopardi stesso lo negò vigorosamente (Palinodia a Gino Capponi), e leggere i Canti è un buon modo per capirlo, per quanto probabilmente non il migliore. Il migliore, forse, sarebbe leggere lo Zibaldone, che è uno dei miei desideri irrealizzabili causa cronica mancanza di tempo.

In sostanza, il risultato di questo sommarsi di ricordi per me poco lusinghieri e di considerazioni critiche che non apprezzo è stata una lettura molto cauta. Ho letto (e riletto, in piccola parte) Leopardi tentando di non identificarmi con lui. Anzi, con il timore di riconoscermi troppo facilmente in qualcosa, di ridurre la sua visione alla mia e di mancargli in tal modo di rispetto come tutti gli altri. Non voglio mancare di rispetto a un autore che vorrei fosse me. Cioè, il contrario, ma era difficile inserirlo nella frase: io vorrei essere lui. Ci siamo capiti. In cambio di un frammento della sua profondità nel vedere il mondo (e la letteratura, e forse anche i rapporti umani, ma di questo non sono sicurissima), accetterei volentieri un paio di gobbe e un fastidioso amico napoletano. Al di là dei miei curiosi complessi di inferiorità nei confronti di determinati poeti italiani (vogliamo parlare di Carducci, che peraltro detesto?), comunque, la lettura dei Canti è iniziata con queste riserve.

Sorprendentemente, ho finito per riconoscermi in Leopardi. Non identificarmi, il che è un notevole progresso intellettuale, o almeno spero. Premetto che mi manca, nel caso non si fosse capito, una base critica decente (almeno finché non leggerò ciò che mi è stato consigliato a riguardo), quindi potrei cadere in madornali fraintendimenti. Leggendo soltanto, tuttavia, ho ritrovato almeno e soprattutto due aspetti di me nella poesia leopardiana: innanzitutto un amore per la forma e una tendenza a sforzarsi di esprimere le emozioni meno definite con un lessico curatissimo, anche se via via sempre più quotidiano (gli stessi elementi che ritrovo in Petrarca, e non ci vuole un genio per dirlo, lo so); in secondo luogo, e in modo ancora più personale, il timore della morte. Anzi, il terrore della morte: pur con tutte le sue teorie sull’infelicità e sul suicidio, Leopardi è attaccato alla vita fin quasi alla mostruosità. O almeno così si vede.

“E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che la persona, quantunque ben cosciente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto, è quello che ci governa.”

[Dialogo di Plotino e di Porfirio]

L’attaccamento alla vita è naturale, prescinde dalla filosofia e nonostante tutti i discorsi sul suicidio è fondamentalmente inevitabile, almeno per Leopardi. Solo nel momento in cui si scopre innamorato e, per quanto questo sia assurdo, più felice e più vivo di quanto non sia mai stato, allora dichiara di desiderare la morte:

Giammai d’allor che in pria
questa vita che sia per prova intesi,
timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
quella che il mondo inetto,
talor lodando, ognora abborre e trema,
necessitade estrema;
e se periglio appar, con un sorriso
le sue minacce a contemplar m’affiso.

[Il pensiero dominante]

Tra parentesi, questi versi mi ricordano un frammento di Ungaretti di cui non ricordo la collocazione:

Sempre ero stato timido,
Ribelle, torbido; ma puro, libero,
Felice rinascevo nel tuo sguardo.

Per concludere, perché ho già scritto davvero troppo: il mio legame con Leopardi e con il timore-desiderio della morte forse sta tutto in questo frammento dello Zibaldone.

“Io era oltremodo annoiato della vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: S’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole.”

Disenchanted lullabies

January 22, 2012 § Leave a comment

Canzone del giorno: Black Kids, I’m not gonna teach your boyfriend. Anche se sembra una contraddizione, perché il post parla di questa:

Avvertenza numero uno per coloro cui non piace il genere: non ascoltatela. O non sperate che vi piaccia. Non brilla per varietà melodica. Leggete almeno il testo, se vi interessa. Oppure continuate a leggere qui e capirete lo stesso.

Avvertenza numero due per tutti: questo post potrebbe essere più autoreferenziale del solito. E sapete che significa proprio tanto.

Ci sono diversi motivi per cui questa canzone (insieme a un paio di altre dello stesso gruppo) è uno dei miei inni. Laddove per “inno” intendo un brano che userei per affermare la mia identità: quindi non del tutto sincero, perché una descrizione di sé non lo è mai, ma abbastanza vicino alla realtà. O a una parte della realtà. O a quello che voglio vedere della realtà. In un determinato momento. Non fatemi cominciare su questa linea o non finisco più. Comunque, ci sono diversi motivi per cui questa canzone è uno dei miei inni, e non c’è bisogno di elencarli. Oggi ho intenzione di usarla come spunto per un discorso sulla reciprocità. Che, francamente, in italiano è una parola orrenda. Preferirei di gran lunga l’inglese reciprocity, ma suonerebbe alquanto strano se lo usassi più di una volta. Per reciprocità intendo esattamente questo:

sing me yours, I’ll sing you mine.

Reciprocità, scambio (non materiale), simmetria sono una parte del mio modo di approcciarmi al mondo, e soprattutto alle persone con cui mi relaziono più profondamente. Parlatemi di voi e io vi parlerò di me. Datemi la vostra versione e io vi darò la mia. Trovo insopportabile, in linea di principio, mostrare parte di me a persone che non sono disponibili a fare lo stesso. Sono le regole dell’incontro, per quel che mi riguarda. Naturalmente, toccherà a me rispettarle per prima. Spesso è necessario che sia io a offrire qualcosa di me, con delicatezza, per saggiare il terreno. Talvolta a questo corrisponde un’apertura dall’altra parte. Talvolta no, e allora è difficile che io faccia un nuovo tentativo, almeno per qualche tempo. È una struttura consolidata, semicosciente, un sistema di regole flessibili per avvicinarsi a un altro essere umano. Non ferire, non chiedere di entrare, mostra le mani e aspetta che l’altro faccia lo stesso. È, nello stesso tempo, naturalmente, un’istanza di controllo. Ma, si sa (o forse non si sa), il controllo è alla radice della gran parte dei miei comportamenti.

Eppure non è sempre così. Una volta che il terreno è stato saggiato, che il rapporto ha allungato con lentezza i suoi filamenti un po’ appiccicosi, allora le regole diventano sempre meno importanti. I miei rapporti umani non sono basati sul controllo, anche se questo si rivela essere soltanto autocontrollo. Si stabilisce un’altra base su cui comunicare, per quanto altrettanto labile. Ma a me rimane un fondo di diffidenza. Quando una persona mi nega una parte sostanziale di sé, allora potrò anche continuare ad essere sincera (perché altro è importante, non mi stancherò mai di ripetermelo), ma lo farò con un continuo senso di allarme. Non può che essere un diritto, quello di non dire, anche nel rapporto più stretto. E non amo quel lato istintivo di me che mi ripete che essere conosciuti senza conoscere è pericoloso, e farsi conoscere senza conoscere è da incoscienti. Razionalmente, so bene che non è così. Ma la razionalità non governa i miei pensieri, se mai ne è espressione. So che sembra contraddittorio.

Conclusione e postilla: la conclusione non c’è. Il conteggio parole mi dice che questo post, per i miei standard, è breve. Credo dipenda in parte anche dal fatto che ho cambiato font di scrittura. Sono stata costretta, in quanto era un carattere di Ubuntu e ora lavoro su OpenSUSE (ricordate i buoni propositi? Be’, mi trovo piuttosto meglio), e non lo riesco a ritrovare. La cosa mi infastidisce oltremodo. In ogni caso, questo carattere è molto più grande (anche se WordPress lo pubblica piccolissimo, misteri dell’informatica), quindi riempio una pagina molto più in fretta e mi convinco di aver scritto troppo.

Restando in tema di comunicazioni di servizio, non faccio neanche in tempo a rendermene conto ed è passata una settimana dal mio ultimo post. Nel frattempo mi si è accumulata una lista di almeno otto titoli. Ne ho per un mese, volendo. In realtà, prossimamente potrei, e dico potrei, avere un po’ più di tempo per scrivere (non è stata una settimana tranquilla, dico solo che ho passato meno ore a casa che fuori), quindi vorrei provare ad aumentare la frequenza delle pubblicazioni. Ma non prometto nulla. Anche perché avevo previsto di iniziare un progetto, e non l’ho ancora fatto. Ma, credetemi, è in cantiere.

È il momento di rimettersi a fare qualcosa per me, come si deve.

Ora questo post conta poco più di ottocento parole. Sempre sotto la media, ma più che accettabile. Magia dell’accumulazione.